La dissoluzione dell’Impero austro-ungarico nel diritto internazionale e sue conseguenze

Un soggetto di diritto internazionale?

Ci sono stati nel passato alcuni studiosi che hanno sostenuto fosse errato parlare dell’Impero austro-ungarico come di un soggetto di diritto internazionale distinto dagli Stati consociati e a questi sovraordinato. Di conseguenza non se ne sarebbe potuta ammettere la dissoluzione, giacché ciò che non è mai esistito non può scomparire [Cavaglieri, L’esecutorietà delle recenti sentenze di divorzio pronunciate a Trieste e a Fiume, in Foro italiano, 1921, I, col. 210 ss. In specie col. 214; ID., Ancora sulle sentenze di divorzio pronunciate a Trieste prima dell’annessione, ibidem, I, col. 1022 ss. Successivamente, l’Autore ha posto la questione in tutt’altri termini, come risulta dal suo Corso di Diritto internazionale, Napoli, 1932]. Le questioni sono di duplice natura: da un lato si tratta di capire se l’Unione degli Stati austriaco e ungherese abbia dato origine a un vero e proprio Stato o, comunque, a un ordinamento giuridico sovraordinato ai distinti ordinamenti giuridici degli Stati membri; la seconda è se questo Stato di Stati sia dotato di una sua personalità internazionale e, come tale, abbia costituito un soggetto di diritto internazionale.La diversa valutazione dipende dall’approccio al problema della personificazione degli Stati in diritto internazionale, restando fermo che essere persona di diritto internazionale significa essere soggetto di diritti e doveri, significa essere destinatario di norme dell’ordinamento giuridico internazionale. La titolarità dei detti diritti e doveri ricade pur sempre in capo all’ente collettivo, all’ente sociale di riferimento.Qual è, dunque, il carattere dell’Unione fra l’Austria e l’Ungheria se non quello dell’unione reale, cui larga parte della dottrina ha attribuito personalità internazionale? [Fra gli altri Diena, Fedozzi, Cavaglieri, mentre si distingue Anzilotti laddove Donati e Gemma si esprimono in senso nettamente contrario, mentre in forse resta la posizione di Ranelletti]. Tuttavia, ai fini di questo contributo, non interessa tanto affermare la personalità internazionale dell’Austria Ungheria quale unione reale, bensì sottolineare come a quell’ordinamento giuridico composto, noto come unione reale, quale fu l’Austria-Ungheria, non si possa non riconoscere la qualità di soggetto di diritto internazionale.Il fondamento di questo Stato composto, o unione di Stati che dir si voglia, si troverebbe nel cosiddetto “Compromesso” del 1867, costituito da due leggi: ungherese XII del 28 luglio ed austriaca n. 146 del 21 dicembre 1867. È dunque ad esso che, prima facie, ci si deve richiamare per formulare un giudizio sulla personalità internazionale dell’Austria-Ungheria; in secondo luogo, ci si deve richiamare anche alla sua evoluzione e alle modificazioni subite, nonché alla sua derivazione dall’ordinamento giuridico precedente: tutti criteri utili per constatare l’esistenza di concrete estrinsecazioni di personalità da parte sua [De Louter, Le droit international public positif, Oxford, 1920, I, p. 193.]. Dal complesso delle considerazioni dianzi svolte, riteniamo non si possa negare la vita propria e la soggettività internazionale dell’unione reale esistente tra l’Austria e l’Ungheria dal 1867 al 1918: argomentazioni contrarie non possono che allontanare dalla realtà. Dunque, proprio sulla base di quelle due leggi unilaterali, austriaca e ungherese, l’Impero austriaco si trasformava da Stato semplice, unitario, qual è stato nel periodo tra il 1848 e il 1867, in uno Stato composto. Che questo ordinamento giuridico possa qualificarsi come Stato è questione più di parole che di fatti concreti essendo sufficiente ammettere che non si risolve in meri vincoli associativi, bensì consta di organi esplicanti un’attività anche solo di ordine amministrativo ad essi sovraordinata e concretantesi in atti d’imperio che normalmente sono emanazione di ordinamenti statuali.La dottrina ha ricondotto le unioni di Stati a due tipi fondamentali: la confederazione e la federazione, tipologie che si distinguono per il maggiore o minore grado di centralizzazione o decentramento dell’ordinamento giuridico che ne deriva [Kelsen]. Ciò spiega la reazione ungherese tesa a ottenere il riconoscimento di una parità effettiva e una minore ingerenza nei suoi affari interni da parte austriaca, che essa interpretava come menomazione del “Compromesso” che doveva rappresentare un contemperamento dei diritti e doveri delle due Nazioni più forti dell’Impero.Senza entrare nel merito della questione e alla luce delle differenti prese di posizione, soprattutto in campo ungherese, verrebbe da chiudere la questione affermando che l’Austria-Ungheria era uno Stato federale, con larghissima autonomia dei due federati.

Le correnti nazionaliLe argomentazioni di cui sopra ci inducono ad affermare che l’estinzione dell’Impero austro-ungarico, persona di diritto internazionale, non può che aver dato luogo, sotto il profilo giuridico internazionale, al formarsi di nuovi Stati (nuovi, però, sotto il profilo del rispettivo ordinamento interno e dell’ordinamento internazionale o anche soltanto secondo questo ultimo) e all’ingrandimento di Stati preesistenti, ove non si dimostri che qualcuno di essi rappresenti il vecchio Impero, territorialmente più contenuto, ovvero che continui la personalità dei due Stati di cui questo si componeva. Parrebbe del resto singolare che il diritto internazionale, o quantomeno la collettività delle Potenze vincitrici, avessero inteso conferire a due di questi Stati una personalità internazionale che prima non avevano proprio nel momento in cui si entrava in un’epoca di rivolgimenti, un’epoca dominata dal fatto cui il diritto internazionale era estraneo.Anche facendo nostra la tesi dello scioglimento puro e semplice dell’unione reale e della conseguente entrata in scena dello Stato austriaco e dello Stato ungherese, che avrebbero riacquistato la piena capacità d’agire, non è difficile dimostrare, alla luce degli avvenimenti, come, nell’immediato primo dopoguerra, ci si sarebbe trovati di fronte all’estinzione non già dell’Impero austro-ungarico, bensì del più importante dei due Stati che lo componevano, lo Stato austriaco, attesa la difficoltà, in quei frangenti, di capire quale fosse l’assetto dell’Ungheria e alla luce del fatto che le opinioni sulla forma del Governo ungherese erano alquanto discordi.La questione non ha rilevanza solo teorica, giacché la soluzione del problema in uno o nell’altro dei due sensi indicati, comporta una diversa qualificazione della condizione giuridica dei territori passati a Stati preesistenti che ha conseguenze di vasta portata (non soltanto in materia di debiti pubblici come si è soliti ritenere) sui rapporti nascenti per effetto della situazione venutasi a creare [Cavglieri, op. cit.; Matteucci, L’occupazione e l’annessione dei nuovi territori nel diritto pubblico generale e nel diritto penale, in Rivista di diritto e procedura penale, 1922, p. 289 ss.].Ben prima del crollo era diffusa l’opinione che l’Impero stesse per sgretolarsi sotto la forza d’urto delle nazionalità. Ciononostante, esso aveva mostrato una inaspettata vitalità che, accompagnata a una sana amministrazione, a una rigida concezione dell’autorità statale, al discreto benessere economico e all’attaccamento di larghi strati della popolazione all’idea di Stato austriaca, ava operato il miracolo di una continua autorigenerazione.Non è da escludere che il vecchio Impero sarebbe durato probabilmente ancora a lungo se solo avesse saputo optare per una politica meno oppressiva capace di inglobare le varie correnti nazionali nell’organizzazione statuale, attuando una trasformazione in senso federalista sulla base delle singole nazionalità. Certo, ciò non avrebbe impedito lo scoppio del conflitto che, come è ormai noto, oltre alle vicende balcaniche dell’epoca, è da ricollegarsi anche alle opzioni pangermaniche di larghi strati dell’alta borghesia, della nobiltà e delle forze armate, oltre che alle questioni geostrategiche connesse ai rifornimenti di materie prime che avrebbero dovuto essere assicurate dalla ferrovia Berlino-Bagdad, che però entrava in diretta collisione con gli interessi britannici nell’area.La Guerra Mondiale era stata comunque preceduta da un riacutizzarsi delle lotte tra i popoli della Monarchia mossi da un sentimento sempre più vivo della propria nazionalità. La guerra era il reagente che avrebbe fatto precipitare la soluzione.Due avvenimenti, nel 1918, avevano influito sul movimento delle nazionalità: il messaggio del Presidente Wilson al Congresso degli Stati Uniti (8 gennaio), in cui esponeva il suo programma di pace mondiale e in base al quale le nazionalità cominciarono a discutere circa i loro futuri destini e il Congresso di Roma fra le nazionalità oppresse dell’Austria-Ungheria (8-10 aprile), anche se il nuovo stato d’animo formatosi fra i popoli della Monarchia trovò sbocco nel Convegno di Praga (16-18 maggio).La fine era percepibile come la brezza al mattino in una giornata uggiosa ed ognuno cominciò a pensare ai fatti propri per non lasciarsi cogliere impreparato dal succedersi degli eventi. Si giunge così alla costituzione dei primi “Consigli nazionali” (in Italia ci si limitò alla costituzione di un “Comitato permanente” di tutti i deputati italiani alla Camera austriaca) che tanta parte avranno nei rivolgimenti successivi.

DismembratioLa proposta di armistizio del 4 ottobre 1918, presentata al Presidente Wilson con la mediazione del Governo svedese, segnava l’inizio della fine. Dichiarando di accettare una pace sulla base dei 14 punti del Presidente degli Stati Uniti, la Monarchia si dimostrava disposta a ritirarsi dai territori occupati ed a permettere lo sviluppo autonomo delle nazionalità.Troppo tardivamente, il Sovrano annunziava l’intenzione di trasformare l’Austria in uno Stato federale, programma cui avrebbero aderito solo i tedeschi e che presentava tutta la propria inanità di fronte alla pretesa ungherese di “inviolabilità” delle frontiere, lasciando così intendere che cecoslovacchi e jugoslavi divisi, per il regime dualista, fra i due Stati, non avrebbero potuto aspirare all’autonomia.Le manifestazioni per l’autodecisione si susseguirono in tutti i territori soggetti all’autorità di Vienna, avvenimenti che portarono all’estinzione dell’antico ordinamento, giacché non si tratta di semplici modificazioni territoriali o mutamenti costituzionali.Siamo in presenza di una figura all’epoca rara ma nota come la dismembratio (smembramento) di uno Stato per via rivoluzionaria, dello smembramento dell’antico ordinamento plurinazionale nei vari raggruppamenti nazionali che ne fungevano da substrato e che s’erano organizzati in comunità politiche non legate più da alcun vincolo unitario, ma aventi i requisiti necessari per vedersi attribuita la qualità di Stati.Le difficoltà nascono quando si vogliano mettere a raffronto queste entità statuali che si professano tutte nuove, mentre potrebbe essere che alcune, seppure sotto altra veste, siano la continuazione, sotto il profilo del diritto internazionale, di realtà preesistenti. Così, ad esempio, Polonia e Cecoslovacchia sono indubbiamente nuovi Stati, mentre per i territori slavi del sud si tratta incontestabilmente della formazione di un organismo statale e della successiva incorporazione di esso da parte di uno Stato preesistente o della sua fusione con questo per formarne uno del tutto nuovo. Le opinioni cominciano a divergere quando si tratta dell’Austria e dell’Ungheria. Il problema, dunque, è stabilire quando si ha estinzione di uno Stato con conseguente formazione di uno nuovo, tema di cui non ci occupiamo, perché di contenuto tecnico, ma che possiamo così riassumere: uno Stato si estingue quando vien meno uno almeno dei suoi elementi costitutivi e, prescindendo dal caso ipotetico dell’estinzione fisica, si allude alla scomparsa dell’organizzazione del gruppo sociale, della potestà d’imperio. Con riguardo alle conseguenze immediate e dirette, transitorie e definitive, dello smembramento dell’Impero austro-ungarico, possiamo rilevare come siano otto le entità statuali venutesi a formare, di cui una identificantesi, da punto di vista del diritto interno con uno Stato preesistente, ma avente personalità nuova sotto il profilo del diritto internazionale (Ungheria); cinque aventi personalità nuova dal punto di vista sia del diritto internazionale sia del diritto interno (Austria, Repubblica Cecoslovacca, Polonia, Regno dei Serbi-Croati-Sloveni, Stato libero di Fiume – estintosi per incorporazione in Stati preesistenti -); due privi di personalità giuridica internazionale anche perché non più esistenti (Stato degli Sloveni-Croati-Serbi fuso con uno Stato preesistente, la Serbia, per dare origine ala nuovo Stato dei Serbi-Croati-Sloveni e la Repubblica dell’Ucraina Occidentale, incorporata in un altro nuovo Stato, la Polonia).Per quanto concerne gli ampliamenti di Stati preesistenti, ci sembra che lo smembramento dell’antico Impero [Balladore Pallieri, L’estinzione di fatto degli Stati secondo il diritto internazionale, in Annali dell’Istituto di Scienze giuridiche, economiche e sociali della regia Università di Messina, 1932, p. 58 s..] non abbia potuto dar luogo a effetti così immediati, ma soltanto indirettamente, almeno sotto il profilo giuridico internazionale particolare.Dopo lo smembramento, l’effetto immediato per i territori sottoposti alla potestà d’imperio dei nuovi ordinamenti statali, è semmai stata l’occupazione/detenzione da parte di organi di questi ultimi. Gli ingrandimenti degli Stati preesistenti all’estinzione dell’antico Impero sono dovuti a cessioni internazionali, più o meno fittizie, predisposte dai trattati di pace; mentre un altro affetto di questi ultimi è stata l’attribuzione di una parte dei territori già austroungarici in condominio e in coimpero – secondo la finalità della disposizione relativa dei trattati di pace – alle Potenze alleate e associate.Nondimeno, si sono avuti casi anche di veri e propri ingrandimenti a seguito del riconoscimento dell’appartenenza di territori così come emerge dagli stessi Trattati di pace o in accordi successivi [Udina, Le recenti annessioni territoriali al regno d’Italia, in Rivista di diritto internazionale, 1930, pp. 310-312.].

I nuovi StatiL’opera di sistemazione dei nuovi Stati sorti dallo smembramento dell’antica Monarchia non era né perfetta né completa con i trattati di pace. Infatti se tutti i nuovi Stati vedevano riconosciuta nei detti trattati la propria personalità internazionale – che per gran parte di essi già esisteva – se l’Austria e l’Ungheria vedevano regolata la loro posizione internazionale, altri, nonostante il riconoscimento (il cui significato, è bene ricordarlo, aveva e ha contenuto politico e non giuridico-istitutivo), costituivano ancora entità vaghe, indeterminate, specie con riguardo agli elementi materiali. Ci riferiamo a Paesi come la Polonia, la Cecoslovacchia, la Romania, la Jugoslavia.A questo riguardo, per una compiuta sistemazione dei nuovi Stati, ad esclusione dell’Austria e dell’Ungheria, e per la delineazione della loro personalità internazionale, particolare rilevo assumono i trattati impropriamente definiti “per la protezione delle minoranze”.L’avverbio è usato a proposito giacché i trattati in questione, che oltre a occuparsi di minoranze, affrontano questioni importantissime che esulano dal tema della protezione delle minoranze. La mentalità dell’epoca tendeva a focalizzarsi sul principio, codificato in tutta la sua ampiezza, dei diritti delle minoranze, tanto da qualificare nel modo anzidetto i trattati in questione; ma ciò non toglie che la loro importanza dipenda anche e soprattutto da altre disposizioni, solo che si consideri che la loro origine si deve alla avvertita necessità di regolare internazionalmente la vita dei nuovi Stati sorti per opera delle Potenze dell’Intesa, o di quelli che dalla sua vittoria avevano visto ampliarsi il proprio territorio. La loro forma è eguali in tutti i casi, nel senso che si tratta di un accordo stipulato tra il singolo Stato e le Principali Potenze Alleate e Associate.I trattati in questione non solo avevano riguardo alla protezione delle minoranze etniche, linguistiche e religiose, stabilendone anche il regime, non solo dettavano norme in materia di cittadinanza, ma miravano soprattutto a regolare lo stabilimento delle rappresentanze diplomatiche e consolari nei rispettivi Paesi, ad ottenere un equo trattamento del commercio degli altri Paesi da parte dei nuovi Stati e la libertà delle comunicazioni e del transito attraverso di essi, un regime doganale favorevole per le merci provenienti dagli stati alleati, e via dicendo.Inoltre, i nuovi Stati si impegnavano ad aderire ad una serie di convenzioni internazionali enunciate nei trattati stessi e a quelle di carattere generale che fossero state concluse sotto l’egida della Società delle Nazioni entro un determinato periodo.Tutti i trattati in questione contengono una disposizione identica a quella contenuta nei trattati di pace con l’Austria e l’Ungheria, secondo la quale i nuovi Stati s’impegnano acché le clausole concernenti le minoranze siano riconosciute come leggi interne fondamentali e che nessuna legge o regolamento interni sarà varato in contrasto con esse. I nuovi Stati furono così costretti a modificare le loro leggi interne o con richiami generici al Trattato o statuendo ex novo analoghi principî.Va rilevata la diversità di trattamento fatto all’Austria e all’Ungheria, giacché mentre queste videro poste le relative disposizioni nei Trattati di pace stessi, con gli altri Stati, già anteriormente riconosciuti e considerati alleati, si preferì stringere uno speciale Trattato che, come si è detto, non aveva riguardo solo alle minoranze, ma ne investiva tutta l’esistenza statale.

La questione di FiumeLa marcia verso Fiume iniziò da Ronchi, che non a caso si chiamerà di lì a non molto “dei Legionari”. Per fregiarsi di detta “aggiunta”, che tardava a essere deliberata dalle autorità di governo dell’epoca, gli amministratori offrirono la cittadinanza onoraria a Benito Mussolini, cittadinanza che con recente delibera è stata tolta al suo beneficiario.Riteniamo quest’ultima una decisione risibile per almeno un motivo: l’inutilità, se non come mero atto simbolico di dubbio valore etico-morale ma sicuramente di indubbio interesse politico, del ritiro dell’onorificenza a un morto. Ancora più risibile sarebbe la cancellazione, come pure si vorrebbe, “dei Legionari” per trasformarla in “dei partigiani”, circostanza che non mi turba, essendo figlio di ex partigiano internato in campo di concentramento, ma la trovo di dubbio gusto, perché quelle pagine di storia meriterebbero, oggettivamente, ben altra attenzione.E con ciò spero non si pensi di lanciarmi addosso strali che, anticipo, avrebbero come unico effetto quello delle gocce di pioggia sull’ombrello. D’altronde, se in ben altra contingenza storica e politica, quando pur si pensò a una detta eventualità, non si ritenne di giungere a tanto, ed era l’epoca dello contro duro degli anni ’70, mi chiedo che senso abbia farlo oggi, a meno che non si ritenga l’attuale PD vero erede dei valori dell’antifascismo e delle forze che maggiormente si batterono per l’avvento della libertà e della democrazia nel nostro Paese.Spero non sia questa la recondita motivazione, giacché la derisione potrebbe tradursi in risa sbellicate. Ma esiste poi un altro motivo, questo un po’ più grave: l’ignoranza della storia e il pregiudizio che vuole “Dannunzio fascista e l’impresa fiumana antesignana della Marcia su Roma” [Cecchini, La Reggenza fiumana nella storia e nell’ordinamento giuridico internazionale, in Sinagra (a cura di), Lo Statuto della Reggenza italiana del Carnaro tra storia, diritto internazionale e diritto costituzionale, Atti del Convegno promosso dall’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, Facoltà di Scienze Politiche, 21 Ottobre 2008, Milano, 2009, p. 75]. Una più attenta lettura della storia, scevra da pregiudizi, avrebbe consigliato e consiglierebbe maggiore prudenza. La questione di Fiume aveva sollevato questioni giuridiche connesse alla successione dell’Italia rispetto all’Ungheria, così come emerge dall’art. 53 del Trattato di Pace di Trianon.La questione è molto complessa, sicché ci limitiamo a tratteggiarne i contorni di maggiore interesse. Dunque, a nostro avviso, solo a seguito dell’occupazione dannunziana può dirsi si sia costituito un “Governo di fatto” esercitante i poteri sovrani di un nuovo Stato formatosi proprio a seguito di quell’impresa, ancorché privo di riconoscimento internazionale, di cui i Legionari e il Consiglio Nazionale dovevano considerarsi organi.Va da sé che il riconoscimento non ha valenza costitutiva dello Stato, ma ha il solo significato di testimoniare la volontà del soggetto riconoscente di voler intrattenere rapporti con il soggetto da riconoscere [Quadri, Diritto internazionale pubblico, Napoli, 1989]. La nuova organizzazione statale che si stava delineando per effetto della presenza dei Legionari, aveva tutte le caratteristiche per essere considerata tale, pur in difetto del riconoscimento.Dunque, con la proclamazione della Reggenza italiana del Carnaro, l’8 settembre 1920, e con la contestuale promulgazione della Carta del Carnaro, nonostante il carattere di provvisorietà e la volontà di procedere quanto prima alla sua incorporazione nel Regno d’Italia, si venne a costituire un’effettiva realtà statuale.Riteniamo che se, da un lato, con la Reggenza si è inteso dar luogo a un vero e proprio Stato fiumano, dotato dunque di personalità giuridica internazionale; dall’altro, con l’entrata in vigore del Trattato di Rapallo (2 febbraio 1921) ci si è limitati a perfezionare l’animus dei contraenti istituzionali, dando origine a un nuovo Stato di Fiume solo in parte coincidente con quello della Reggenza del Carnaro [Cecchini, op. cit., p. 123].Questo fu il motivo che indusse lo Stato italiano a invitare gli organi della Reggenza ad abbandonare il territorio compreso nello Stato di Fiume sorto a seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Rapallo. Ottenutone un diniego, l’Italia decise di obbligarli all’abbandono ricorrendo anche all’uso della forza armata.Posto che il Trattato di Rapallo è successivo alla nascita della Reggenza del Carnaro, con cui si era dato origine a uno Stato di fiume, l’azione dello Stato italiano è da considerarsi alla stregua di un’aggressione volta contro uno Stato sovrano, probabilmente decisa per un malinteso seno di responsabilità internazionale, considerato che le autorità italiane si erano rivelate incapaci di impedire che propri sudditi e propri organi partecipassero alla formazione di una realtà statuale che, a ben vedere, si poneva in contrasto con i diritti e doveri (e interessi) delle Potenze Alleate e Associate assunti sulla base della Convenzione d’Armistizio.La circostanza secondo cui la Reggenza si sarebbe costituita con il solo scopo del ricongiungimento di Fiume alla Madrepatria è indicativa di una volontà iniziale, mentre tutto lo sviluppo successivo della situazione e in specie il dispiegarsi dell’ordinamento interno, nonché l’assunzione di talune posizioni di rilevanza internazionale, come quella con l’Unione Sovietica, lascia chiaramente intendere che si era formato, a tutti gli effetti, il cui fine ultimo di ricongiungimento all’Italia sarebbe stato deciso, ove la volontà fosse rimasta inalterata, con tempi e modi da decidere in tutta autonomia.Sono evidenti le ragioni politiche di disconoscimento della realtà statuale fiumana, ma ciò non deve trarre in inganno il giurista che non deve limitarsi alla sola situazione di fatto venutasi a creare con il rifiuto da parte italiana di accettare la dichiarazione di guerra mossa contro lo Stato italiano da Fiume, anche perché tra le due soggetti non si determinò uno stato di belligeranza, posto che non esiste alcun atto che, alla fine della contesa, ne abbia sancito la fine.A conferma della nostra tesi, è sufficiente ricordare come il Gen. Ferrario, delegato delle truppe italiane della Venezia Giulia, abbia firmato con “lo Stato di Fiume” un accordo, ancorché solo militare (noto come Patto di Abbazia). A ben vedere non si firmano Trattati, accordi, Patti o quant’altro con entità inesistenti… dunque…

Le eredità della Prima Guerra MondialeLe vicende della Prima Guerra Mondiale hanno lasciato strascichi di varia natura in queste zone e Fiume è solo una delle eredità lasciateci. Risolta? Per la verità, pur nel rispetto dell’intangibilità delle frontiere, se ne sarebbe potuto riparlare dopo la dissoluzione dell’ex Jugoslavia non già rinegoziando Osimo, Trattato che aveva già prodotto tutti i suoi effetti, ma negoziando un nuovo Trattato. Va da sé che per queste scelte è necessario ci siano Governi che abbiano consapevolezza degli interessi del Paese che rappresentano.Un’altra questione è costituita dai rapporti con la minoranza slovena specie in Gorizia. Le considerazioni che svolgo sono riprese dagli scritti di un grande intellettuale quale fu Piero Gobetti, una figura di antifascista che ha molto influenzato la mia formazione politica.Gorizia “città antifascista d’istinto”, come la descrive il Nostro, vantava una borghesia cittadina filoitaliana, una classe operaia che non pensava ai sommovimenti rivoluzionari, seppure di orientamento marxista, e una propensione alla convivenza interetnica molto spiccata. La campagna, in larga parte slovena, era favorevole all’Impero asburgico: un segno premonitore di lotta città-campagna segnata da uno scontro tra gruppi etnici differenti.Dopo l’abolizione della Provincia di Gorizia, perché rivelatasi poco convintamente fascista, e l’invio di squadre apposite per indurre a più miti consigli i riottosi goriziani, a chi si rivolsero queste ultime per svolgere il proprio solerte lavoro di convincimento? Si rivolsero alla campagna, formata da sloveni, che poterono così saldare il conto, da austriacanti, con i cittadini, “traditori”, filo italiani.Un tanto per ricordare a quanti hanno sempre confuso, nel secondo dopoguerra, lo sloveno con il perseguitato della minoranza, che la storia è più complessa di quanto non voglia certa retorica di uso corrente. Ciò non significa non riconoscere i sacrosanti diritti della minoranza, significa solo ricordare che non esiste una purezza assoluta di sentimento e di comportamento riconoscibile in via esclusiva in una delle parti soltanto.Forse che i partigiani italiani, dopo la “battaglia” di Gorizia nel settembre del 1943, aggregatisi nel IX Corpus titino non subirono la diffidenza degli sloveni venendo equiparati ai fascisti secondo la nota equazione: italiano dunque fascista? Forse che quando si doveva dare l’ “esempio” i partigiani titini non privilegiavano individuare, tendenzialmente, il reo tra i partigiani italiani? [Steffè, I cavalli di guerra non amano la pace, un libro che descrive la vita dei partigiani combattenti in Jugoslavia e del comandante della Btg Garibaldi, il monfalconese Fantini (nome di battaglia Sasso) in cui si riporta il caso di un partigiano italiano, fucilato per dare l’esempio, appunto].Il bello della storia è che si fa con le pagine gloriose di chi ha combattuto in nome di un’idea, di principi, di valori e con le pagine oscure che celano veleni, ostilità rancori, vendette che, trasversalmente, toccano tutte le parti in lotta. Pur senza disconoscere le diverse ragioni che hanno mosso le parti a fare certe scelte e che il vincitore giocoforza ha la ragione dalla sua, non si uscirà mai dal ghetto della rivalsa, in cui si rischia di rinchiudersi, se non si sceglierà la via del rispetto reciproco, di quel rispetto che deve essere rivolto a maggior ragione a chi è risultato sconfitto, il quale, a sua volta, ammettendo la sconfitta, deve riconoscere le ragioni della vittoria dell’altro contendente.La prima Guerra mondiale, come è ormai noto, scoppiò per volontà di alcune lobby, non solo militari, austriache legate al mondo tedesco tese al raggiungimento di obiettivi economici che però contrastavano con gli interessi anzitutto britannici.Le rivendicazioni nazionali, dunque, si sono sovrapposte a ben altre motivazioni e a ben altri interessi, anche se solo i grandi ideali, e fra questi non v’è certo la ragion economica, sono in grado di mobilitare ingenti masse e indirizzarle verso il conflitto.Una cosa è certa, se disistima deve essere riservata questa va all’imboscato, al profittatore, all’opportunista, a quanti non sanno (non hanno saputo), non vogliono (non hanno voluto) fare una scelta, giusta o sbagliata che sia, quando questa deve (doveva) essere compiuta.

*Professore Associato di Diritto Internazionale e dell’Unione Europea presso l’Università di Trieste DISPES-SID Gorizia, CIELS Padova