Jobs Act sul banco di prova dei 5 milioni di lavoratori “atipici”
27 Febbraio 2015
Da un lato l’operaio di una fonderia della Val Trompia (si fa per dire) o l’impiegata del Comune di Roccacannuccia (si fa sempre per dire): due lavori precisi, ben noti all’immaginario collettivo, con un abbigliamento riconoscibile, tuta blu per il primo e abito elegante per la seconda, orari di lavoro certi e stipendio “tranquillo”. Dall’altro, la selva dei nuovi lavori accompagnati da una altrettanto fitta selva di nuovi o diversi contratti: così, pensiamo alla figura del dog-sitter, non così raro nelle grandi città, che porta a spasso e accudisce i cani di più o meno ricchi “padroni” impossibilitati a uscire nel parco con il proprio amato Fido. O ancora, all’addetto al recupero crediti (18mila in Italia, di cui 10mila “co-co-co”, impiegati in 200 società che hanno a che fare – cifra spaventosamente alta! – con 39 milioni di posizioni debitorie, di cui recuperano a mala pena il 20% l’anno). O ancora i lavori cosiddetti “knowledge intensive”, cioè ad alta intensità intellettuale: nel nostro Paese stiamo parlando di figure quali ingegneria e progettazione, relazioni pubbliche, web designer e content, ricerche di mercato, digitale e programmazione informatica, consulenza strategica, sicurezza, import-export globale e così via. In questo settore così variegato, Confindustria Intellect parla di quasi il 100% di persone laureate, spesso con master e dottorati internazionali, un giro d’affari di 10 miliardi di euro l’anno e previsioni di crescita costante. Vi operano qualcosa come 18.850 società di consulenza delle quali soltanto 35 sono al di sopra dei 50 addetti. Un microcosmo di competenze ultrasofisticate, in cui si affacciano i tanti giovani laureati che fanno fatica a trovare un lavoro stabile, a paga piena, “garantito”.
Una sfilza di lavori nuovi e “strani”E ancora, con questo elenco di lavori “strani” e nuovi, come non citare i call-center (35 mila addetti); i 320mila lavoratori intermittenti e a termine di alberghi e turismo; le migliaia di “sondaggisti” con chiamate anche di soli 2-3 giorni per capire se la gente preferisce il “Matteo” Renzi o il “Matteo” Salvini. E infine, i creatori di “app” per cellulari, quei giovani smanettoni che lavorano da casa direttamente su commessa da parte di giganti quali Google o Microsoft, e guadagnano da poche centinaia di euro a decine di migliaia se la propria “app” viene scaricata da altrettanti clienti nel mondo. È questo il panorama che ci sta davanti, e il futuro che attende – dicono i sociologi – oltre la metà dei giovani che si affacciano oggi al mondo del lavoro. Di fronte a questa realtà del lavoro atipico, informale, regolato – come si diceva all’inizio – da una selva di contratti diversi, con il Consiglio dei ministri di venerdì 20 febbraio e il successivo varo parlamentare, il panorama in Italia potrebbe cambiare, abbastanza radicalmente. Il Governo dovrebbe intervenire specificamente su apprendistato (533mila gli apprendisti attuali), associazione in partecipazione (42mila, lavoratori che “partecipano” agli utili in cambio di lavoro), collaboratori a progetto (i co-co-pro, 502 mila), contratti a termine (2,4 milioni, oltre il 10% della forza lavoro del Paese), Job Sharing (solo 300 in Italia, in pratica due lavoratori che si spartiscono lo stesso lavoro), Job on Call (a chiamata, sono 360mila quali gli addetti ad alberghi, villaggi ecc.), lavoro accessorio (615mila, prestazioni occasionali con introiti non superiori a 5mila euro l’anno).
Tra le tutele crescenti e il “giacobinismo giuridico”Di fronte a questa varietà contrattuale, derivante da successive riforme tra cui la “Biagi” (il giuslavorista poi ucciso dalle Brigate Rosse), e la “Fornero”, il Governo Renzi è atteso al varco con una certa ansia da tutte le parti sociali. Gli imprenditori, titolari di società e studi professionali, temono che, di là dalle promesse di snellire il lavoro in entrata e in uscita, in realtà si arrivi a forme di ulteriore e perdurante irrigidimento. Se ne è parlato in un seminario on-line a cura di Adapt mercoledì 18 febbraio. Così, hanno detto gli intervenuti, si vanificherebbe di fatto la riforma prevista. Dall’altra le parti sociali, soprattutto i sindacati, che chiedono rigore nei contratti, sfoltimento e semplificazione per rendere chiara la natura del rapporto di lavoro, evitando abusi e sfruttamento. L’attesa maggiore è per le caratteristiche e l’estensione delle famose “tutele crescenti”, la forma centrale e più tipica che dovrebbe assumere il lavoro subordinato. Se esso è comprensibile per le aziende e realtà di una certa dimensione e tipologia produttiva o di servizio, lo è meno per quel mondo del lavoro “atipico” (descritto più sopra) che non consente, se non in rarissimi casi, di assumere un addetto per poi – con il meccanismo delle tutele crescenti – stabilizzarlo in futuro. Perché – sostengono nel campo del lavoro “atipico” – spesso le occupazioni su descritte sono ormai “a progetto”: nascono su una committenza interna o internazionale, che deve raggiungere un obiettivo certo nel tempo e una volta raggiunto, il lavoro svanisce. Se ne deve generare (o ricercare o creare) un altro. Per questo i contratti co-co-co e co-co-pro per molti lavori “atipici” sono validi: perché accompagnano attività non replicabili, uniche. Le varie associazioni di categoria dei settori su citati temono, in sostanza, che la riforma del Jobs Act assuma le caratteristiche del “giacobinismo giuridico”: in sostanza di voler piegare ideologicamente la realtà del lavoro atipico a una visione appunto giacobina in cui lo Stato indica come dare lavoro e a quali condizioni. Ma questo – assicurano – non è possibile, anzi si farebbe un danno ulteriore e forse irrimediabile. Vedremo quale futuro avranno i quasi 5 milioni di lavoratori atipici che oggi un’attività la svolgono, e anche di medio-alto livello se non di medio-alto stipendio!
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