Europa ed ex colonie
10 Aprile 2015
È la memoria il passaggio intellettuale che consente di fare chiarezza e di distinguere i colonialismi dei singoli Paesi europei dalla mancata scelta di una politica estera comune che avrebbe potuto dare risposte diverse da quelle che, con il loro carico fallimentare, sono sotto gli occhi dell’opinione pubblica mondiale. E, infine, è la memoria il fondamento su cui costruire oggi un futuro migliore. La verità su quanto accaduto per mano coloniale europea non può quindi essere rimossa ma neppure deve frenare la responsabilità e la voglia di costruire un mondo in cui la dignità dell’uomo e i suoi diritti siano riconosciuti e concretamente garantiti. A una solidarietà universale la Comunità europea aveva peraltro riservato un pensiero forte fin dalla “Dichiarazione Schuman”, del 9 maggio 1950: nel passaggio dedicato all’Africa, rimasto disatteso per il permanere di egoismi e interessi nazionali, era ben disegnato un percorso di giustizia e di pace anche fuori dai confini europei. In quella prospettiva la nascita della Comunità europea, diventata poi Unione europea, aveva quindi contribuito allo spegnersi definitivo del colonialismo dei Paesi europei anche se occorrerebbe approfondire il capitolo di una storia che ha lasciato problemi aperti. Uno, tra gli altri, la fragilità della democrazia e delle istituzioni nei Paesi ex coloniali: un valore e un riferimento che non possono reggersi senza una cultura forte della persona e del popolo. La democrazia non nasce e non cresce se non su questo terreno che è del tutto estraneo a quello delle logiche imperialiste e mercantili. Basta seguire a ritroso le tracce del colonialismo di matrice europea per prendere atto che questa cultura è stata in grande misura tradita. Il danno è stato e rimane enorme. Tuttavia non si possono dimenticare altre voci, come quella dell’italiano La Pira, unita a quella del presidente senegalese Senghor, che si levarono per indicare “il sentiero di Isaia”, il sentiero della speranza. Un’indicazione che si concretizzava nei Colloqui mediterranei, nella Federazione mondiale delle città unite, nella Conferenza mondiale dei giovani. Quanti hanno cercato di togliere dall’Europa, dal Mediterraneo, dal Vicino e dal Medio Oriente, dall’America Latina “le tende del terrore” hanno lasciato una consegna culturale e politica all’oggi. Come riprendere questo cammino di fronte a quanto sta accadendo coll’avanzata del califfato in terre che furono colonie di Paesi europei? Quale via intraprendere per essere un “prezioso punto di riferimento per tutta l’umanità” come, appellandosi al primato della persona, chiedeva Papa Francesco al Parlamento europeo il 25 novembre scorso? Come raccogliere il messaggio delle Chiese cristiane europee, e segnatamente di quelle cattoliche, che mantengono vive le relazioni con le Chiese degli altri Continenti e insieme prendono la parola per amore dell’intera umanità? Perché non ricordare, in questo contesto, l’opera dei missionari europei? Cosa ne farà di questi e di altri richiami l’Unione europea, che di fronte alla Libia, alla Siria, al Vicino e al Medio Oriente, all’Africa, all’America Latina si mostra balbuziente, zoppicante e, ancor più, smemorata? Cosa ne faranno di questo messaggio i Paesi come la Francia, l’Inghilterra, la Germania, il Belgio, l’Olanda, l’Italia che hanno scritto pagine di colonialismo in molte aree del mondo? Il passato, anche quello coloniale, non si seppellisce ma si può invece trasformare in un impegno che Václav Havel propose al Parlamento di Strasburgo nel 1994: “Dobbiamo dimostrare che i danni generati dalla civiltà contradditoria dell’Europa possono essere combattuti”. Ma quale dimostrazione sarà possibile se l’Europa si spegnerà negli interessi e nelle paure nazionali oppure se il dibattito sul suo futuro rimarrà nel cerchio, importante ma ristretto, dell’eurozona?
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