Nulla fu più come prima
29 Maggio 2015
Cento anni fa, il 24 maggio del 1915, l’Italia entrava in guerra. Truppe non sempre preparate e armate in modo adeguato varcavano il confine. Vi era, nei vertici politici e militari, la convinzione che l’intervento sarebbe stato di breve durata: l’apertura di un nuovo fronte a Sud – era la previsione – avrebbe rapidamente costretto l’Austria-Ungheria alla resa. Già il 21 giugno, giorno del primo attacco generale, la speranza di trasformare la guerra in una “passeggiata a Lubiana” si dimostrerà illusoria. Benché inferiori per numero, le truppe austro-ungariche resistevano tenacemente.Nei primi mesi di guerra l’esercito italiano, che ha scritto in quegli anni pagine gloriose, perse la sua parte migliore: gli effettivi e i volontari, i più addestrati e i più motivati.Ben presto ci si dovette rendere conto che, anche sul fronte italiano, il conflitto avrebbe preso, come nel resto d’Europa, la forma di guerra di trincea. Se ogni assalto – una parola così temuta dai soldati – si trasformava in una carneficina, la vita nelle trincee, così realisticamente descritta nei diari e nelle lettere dei soldati, non era un sollievo. Fango, pioggia, parassiti, malattie. E quelle attese, lente e snervanti: per il rancio, per la posta, per il cambio. O, inesorabilmente, per un nuovo assalto. Il cui esito sarebbe stato difficilmente risolutivo per le sorti della guerra, ma decisivo per il personale destino di migliaia e migliaia di uomini. “Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie”, scriveva Giuseppe Ungaretti dal fronte, dove era fantaccino, fissando in versi stupendi il senso di totale precarietà che regnava al fronte. Come era diversa, alla prova dei fatti, quella vita di guerra dal sogno luminoso di gloria, dal mito della vittoria, vagheggiati da intellettuali e poeti nei mesi precedenti all’entrata in guerra! Non vi era bellezza tra le trincee, solo orrori, atrocità e devastazioni. Lo aveva ben intuito Renato Serra, spirito nobile di uomo e di letterato, partito volontario e morto sul Podgòra. Serra scriveva: “Non c’è bene che paghi la lagrima pianta invano, il lamento del ferito che è rimasto solo, il dolore del tormentato di cui nessuno ha avuta notizia, il sangue e lo strazio umano che non ha servito a niente. Il bene degli altri, di quelli che restano, non compensa il male, abbandonato senza rimedio nell’eternità”.Eppure, in questo universo fatto di fango, di sofferenze, di stenti e di morte, migliaia e migliaia di soldati, dell’una e dell’altra parte, sopportarono prove incredibili, compirono atti di grande valore e di coraggio e gesti di toccante solidarietà. Siamo qui per ringraziare ancora le nostre Forze Armate, per rendere onore a tutti coloro che in questi luoghi, in queste trincee, patirono, soffrirono e morirono. E compirono gesti di grande valore e di grande coraggio.La logica crudele della guerra non riuscì a piegare il senso di fratellanza, amicizia e umanità. L’odio per il nemico non prevalse sulla pietà. I soldati italiani, in maggioranza contadini, provenienti da storie e regioni diverse, scoprirono per la prima volta, nel senso del dovere, nella silenziosa rassegnazione, nella condizione di precarietà, l’appartenenza a un unico destino di popolo e di nazione. Molti di loro, forse, non riuscirono mai a comprendere le ragioni di quella guerra. Ma nell’animo dei sopravvissuti rimase scolpito, accanto alle insanabili ferite, il senso di aver partecipato a un evento di fondamentale importanza per la vita della nazione. La coscienza nazionale, prima appannaggio ristretto di élites intellettuali, si allargava e si consolidava tra il fango delle trincee. Se, nel 1914, l’Europa si era trovata in armi quasi per un fatale e incontrollato succedersi di avvenimenti, il nostro Paese faceva ingresso nella prima guerra mondiale dopo un anno di trattative diplomatiche, giocate su due tavoli. La scelta ebbe grandi conseguenze, alcune delle quali, allora, difficilmente immaginabili.Dopo quella guerra nulla fu uguale a prima. Il terribile conflitto, che flagellò l’Europa per quattro anni, disgregò imperi e depose regnanti. Abbatté antichi confini, fece nascere nuove nazioni, cambiò radicalmente mentalità, sogni, consuetudini, linguaggi.La guerra fu anche un grande fattore di modernizzazione, industriale, scientifica, sociale. Ma mai crescita di modernità fu pagata a così caro prezzo. Da un punto di vista umanitario fu una carneficina: vi persero la vita 10 milioni di militari e un numero indefinito di civili, vi furono milioni di feriti e di mutilati. Distrusse economie fiorenti, produsse lutti e devastazioni, fame e miseria. Sul piano geopolitico, le sue conseguenze – anzitutto, i trattati di pace troppo duri – costituirono i presupposti per nuovi e ancor più tragici eventi in Europa e nel mondo.Ci troviamo sul monte San Michele, in rappresentanza del popolo italiano e in memoria dei combattenti e delle vittime di tutto il conflitto per rendere loro onore, per ricordare queste sofferenze e il desiderio di pace. Questo è il significato dell’esposizione del tricolore in questa giornata. Sono oggi qui, con noi, gli ambasciatori di nazioni e popoli i cui soldati, allora, combattevano e morivano sull’altro fronte: l’Austria, l’Ungheria, la Slovenia e la Croazia. Oggi siamo popoli e nazioni legati da saldi vincoli di amicizia e di collaborazione e dal comune futuro europeo. Li ringrazio per la loro presenza che spiega al meglio il senso di questa celebrazione, nel modo più autentico, mettendo in evidenza l’aspirazione che ogni uomo nutre per la pace e per la fratellanza.Il San Michele è un luogo sacro. Su questa altura, di quota modesta, ma di straordinaria importanza strategica, si tennero furiosi combattimenti tra le truppe italiane e quelle austro-ungariche.I soldati dell’una e dell’altra parte combattevano e morivano, valorosamente, per la conquista o la difesa di pochi metri di terra, avanzando e arretrando di continuo. La distanza tra le trincee nemiche era qui ridottissima. Si poteva sentire il nemico parlare e respirare.Ogni metro di questa altura, “il gigante vestito di ferro”, è costato prezzi altissimi per entrambe le parti. Lo testimonia il museo qui eretto. Scriveva a proposito del San Michele il Sottotenente Luigi Passeri del 48° Reggimento Fanteria in una lettera ai familiari: «Quando penso che questo monte è stato conquistato a palmo a palmo … loro sopra e noi sotto, e che siamo arrivati fino a presso le cime … Ogni elemento di trincea, ogni linea, è stato preso e ripreso mezza dozzina di volte in assalti feroci …».Su questo piccolo colle si è consumata una delle tante tragedie della guerra.Oggi, gli alberi e la vegetazione hanno pietosamente ricoperto le ferite che il conflitto aveva inferto al paesaggio. Ma ci sono voluti decenni. Per molto tempo questi luoghi, spogliati e devastati dalla furia delle artiglierie, non avevano più conosciuto la primavera. Ovunque da qui volgiamo lo sguardo, dalla cima del Monte Nero ed oltre fino al Rombon, al fiume Isonzo, alle alture del Carso, per arrivare a Monfalcone e al mare, possiamo osservare e riconoscere cime, vallate, luoghi che un tempo furono tristemente famosi, teatro di tante battaglie durissime.Quanto sangue versato, quanto dolore in questi luoghi! E’ passato un secolo dall’inizio della “Grande Guerra”. La ricerca storica ha scandagliato a fondo tutti gli aspetti di quel tremendo conflitto: le strategie militari, le responsabilità della politica e della diplomazia, la propaganda, il contributo degli intellettuali, l’industria degli armamenti, l’economia di guerra. Più di recente si è data voce, attraverso la pubblicazione di epistolari e diari, agli anonimi fanti di trincea, talvolta semi-analfabeti, alle loro speranze e alle loro paure. Si è messo in luce il contributo delle donne rimaste a casa, a vegliare sui figli, o andate in fabbrica o nei campi, a sostituire i mariti che si trovavano al fronte. La Prima Guerra Mondiale è un campo sterminato di ricerca. Ci sono capitoli ancora da approfondire. Pensiamo alle sofferenze delle popolazioni del Friuli e di parte del Veneto durante l’occupazione dopo Caporetto. Pensiamo all’altra guerra, quella della minoranza italiana dell’Impero Austro-ungarico: 100 mila trentini e giuliani spediti a combattere contro i russi nelle lontane terre di Galizia. Pensiamo a tante decisioni che sono state assunte durante la guerra. Non dobbiamo avere paura della verità. Senza la verità, senza la ricerca storica, la memoria sarebbe destinata a impallidire. E le celebrazioni rischierebbero di diventare un vano esercizio retorico. In Italia, nonostante sia passato un secolo, la memoria di quella guerra, la “Grande Guerra”, è ancora sentita, e vanno ringraziati Onorcaduti e le Associazioni che tengono viva la memoria di tanti luoghi che è bene ricordare perché lì si è spiegata, con grande valore e con grande impegno, l’attività del nostro esercito e delle nostre Forze Armate. Non c’è comune, per piccolo che sia, che non abbia il suo monumento ai caduti. Non c’è famiglia che non abbia una storia da raccontare o da tramandare. Rivestono grande significato i tanti progetti di ricerca su quegli anni di guerra impostati e realizzati da giovani studenti. Il ricordo di tanto sacrificio non deve sbiadire. Le atroci sofferenze, inflitte e ricevute, non devono essere rimosse. Il conflitto 1914-18 fu una tragedia immane che poteva essere evitata. La guerra, ogni guerra, porta sempre con sé sofferenza, distruzione e morte. I caduti, di ogni nazione e di ogni tempo, ci chiedono di agire, con le armi della politica e del negoziato, perché in ogni parte del mondo si affermi la pace. Si tratta del modo più alto per onorare, autenticamente commossi, il tanto sangue versato su queste pendici martoriate. È questo il monito, severo e accorato, che tutti avvertiamo, qui, sul San Michele.Sergio MattarellaPresidente della RepubblicaDiscorso pronunciato domenica 24 maggio 2015 sul Monte San Michele
Notizie Correlate