Padre perdona loro perchè non sanno quello che fanno
26 Marzo 2016
Nella passione seconda Luca, ascoltata domenica scorsa, Gesù dalla croce rivolge al Padre una preghiera per i suoi crocifissori; “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno” (Lc 23,34). Una preghiera che esprime per i suoi carnefici non solo perdono, ma persino comprensione, offrendo loro una scusante per il loro agire crudele: “non sanno quello che fanno”. Gesù sa bene come è complicato l’animo dell’uomo che spesso lo porta ad agire senza sapere bene neppure il perché o anche credendo di cercare il bene mentre in realtà sta operando il male. Gesù è consapevole che quello che il catechismo chiede come condizioni per la gravità del peccato – la piena avvertenza e il deliberato consenso oltre alla materia grave – sono spesso lontane dall’essere reali. Ci sembra allora che le parole di Gesù possono essere di grande consolazione per noi: “Signore, tu sai che spesso non sappiamo bene perché facciamo una cosa piuttosto che un’altra. Tu sai che spesso commettiamo il male senza averne la piena consapevolezza: Abbi pietà di noi”.C’è però nel Vangelo di Matteo un brano che pare contraddire la misericordia legata alla scarsa consapevolezza, al non sapere quello che si fa. Un brano dove la non coscienza non salva, ma porta alla condanna. Si tratta della parabola sul giudizio universale presentata nel cap. 25. Sia coloro che sono stati misericordiosi verso gli affamati, gli assetati, gli stranieri, gli ignudi, i malati, i carcerati, sia coloro che al contrario non hanno dato da mangiare, non hanno dato da bere, non hanno accolto, non hanno rivestito, non hanno visitato non sapevano della presenza di Gesù nel bisognoso. Ma questa non consapevolezza non è determinante per essere accolti come benedetti nel Regno o come maledetti essere cacciati. Come mai? Perché per compiere le opere di misericordia non è necessario riconoscere nel bisognoso Gesù, basta riconoscerlo come persona, come uno uguale a ciascuno di noi. Un riconoscere che dovrebbe essere naturale, ovvia, possibile a tutti, ma spesso non è così. Ci può essere una scusante in questo? Il brano di Matteo sembra non prenderla in considerazione. Ci si può solo augurare che la misericordia di Dio trovi comunque una strada di salvezza.Uno che non ha comunque scusanti è il cristiano. Lui non solo sa, come tutti gli uomini e le donne dovrebbero sapere, che nel bisognoso c’è una persona uguale a lui, ma sa anche che in chi è affamato, assetato, straniero, nudo, prigioniero, malato c’è il Signore. Non vederlo non è un venir meno nella carità, ma nella fede. La presenza del Signore nel povero e nel bisognoso è infatti un dato di fede.Nel Vangelo di Luca Gesù a un certo punto Pietro, che forse cercava di applicare le parole di Gesù sulla vigilanza agli altri e non a sé, domanda: “Signore, questa parabola la dici per noi o anche per tutti?”. La risposta del Signore è molto chiara. Dopo aver parlato della responsabilità dell’amministratore, aggiunge: “Il servo che, conoscendo la volontà del padrone, non avrà disposto o agito secondo la sua volontà, riceverà molte percosse; quello invece che, non conoscendola, avrà fatto cose meritevoli di percosse, ne riceverà poche. A chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto; a chi fu affidato molto, sarà richiesto molto di più” (Lc 12,47-48). Il cristiano sa quale sia la volontà di Dio, sa molto bene di aver ricevuto molto e che gli verrà richiesto molto di più. Sa quello che fa e quello che non fa. Può agire come il sacerdote e il levita della parabola del buon samaritano: vedere la persona ferita e percossa e passare oltre. Ma ha un’aggravante rispetto ai due della parabola: sa che in quella persona c’è Gesù.Sarebbe allora meglio non sapere? Ma non si può non sapere. Del resto il riconoscere Gesù nel povero e nel bisognoso e soccorrerlo non è un’opera buona, ma è realizzare noi stessi. Non è forse esperienza comune quella di provare più gioia nel dare che nel ricevere (cf Atti 20,35)? Il motivo è semplice: siamo stati creati a immagine e somiglianza di Dio e Dio è amore, se amiamo non facciamo altro che realizzare quello che siamo. Stiamo vivendo il giubileo della misericordia: un anno in cui trovare delle scusanti per non essere cristiani autentici appellando alla misericordia di Dio? E se il dono da implorare dalla sua misericordia fosse invece quello di tornare a sapere, quello di essere guariti negli occhi della fede per vedere il Signore Gesù nel bisognoso? Dove però si conosce davvero Gesù? Sul calvario: contemplando la croce e vedendo nel suo volto i tratti, spesso sfigurati, dei volti di tutti gli uomini e di tutte le donne che si trovano nel bisogno. Che la prossima Pasqua ci doni questa contemplazione, mentre nel nostro cuore può risuonare un’invocazione: “Padre perdonaci perché, pur sapendo ciò che dovevamo fare, non lo abbiamo fatto”.
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