Giulio non è un “caso” ma una persona
16 Maggio 2016
Martedì 3 maggio l’arcivescovo Carlo ha presieduto nella chiesa di Fiumicello un rito in suffragio di Giulio Regeni, il giovane ricercatore friulano barbaramente ucciso in Egitto tre mesi fa. Al rito hanno patecipato i familiari di Giulio e tanti amici e conoscenti del ragazzo.
Ogni volta che sento parlare alla televisione o alla radio del “caso di Giulio Regeni” – e da tre mesi a questa parte ciò avviene praticamente ogni giorno – mi nascono immediatamente alcuni pensieri.Anzitutto penso con dolore e partecipazione ai genitori, alla sorella, agli amici, ai compagni, ai conoscenti, alla gente di Fiumicello che tutti i giorni sentono parlare di Giulio, ascoltano ipotesi sulla sua morte, aggiornamenti sulle difficili indagini, vedono le sue foto: una ferita sempre aperta e sanguinante che provoca grande dolore e sofferenza.Ma poi penso anche che Giulio non è un “caso”, ma una persona. A tutti noi viene spontaneo trasformare le persone in un caso o ancora più spesso in un numero. Sono convinto che questa astrazione sia una forma di difesa per rendere più sopportabile il dolore, la sofferenza, l’ingiustizia che caratterizza la vita. Sentire alla televisione che sono morti 100 immigrati per una barcone affondato o che 90 persone sono decedute in un bombardamento o in un atto di terrorismo è molto più sopportabile che conoscere il nome, il volto, le storie di ciascuno di loro. Lo stesso avviene quando si va qui vicino a noi a Redipuglia: 100.000 morti sono un’astrazione, ma se leggi i nomi di ciascuno e pensi che ognuno di loro aveva un papà e una mamma, dei fratelli e delle sorelle, una fidanzata o una sposa, dei figli, un mestiere, dei sogni, una vita davanti a sé tragicamente interrotta, allora non ce la fai a resistere senza commuoverti. Forse non è possibile non astrarre, forse è l’unico modo per sopravvivere e per andare avanti. Ma se nel mondo imparassimo a conoscere i nomi e a guardare i volti, molto potrebbe cambiare.Un terzo pensiero che mi nasce spontaneo è che però c’è anche una positività nel fatto che la vicenda di Giulio sia diventata un “caso”, un simbolo. Ci spinge infatti a ricordare tante persone sconosciute che in Egitto e in molti altri paesi subiscono la stessa sorte. Un ricordo che ci può aiutare ad avere un sussulto di dignità, a reagire come possiamo contro le ragioni di stato, di partito, di ideologia o di qualsiasi altra cosa che giustificano e moltiplicano all’infinito nel mondo le ingiustizie, le violenze, le cattiverie. Poca cosa la nostra reazione, ma è importante. Mi ha colpito quanto detto da papa Francesco quando tornando da Lesbo con dodici profughi ha anticipato l’obiezione che dodici non sono niente rispetto all’immensità del problema. Ha citato madre Teresa di Calcutta che diceva che quanto faceva per un povero era solo un goccia d’acqua rispetto al mare dei problemi, ma aggiungeva: “dopo questa goccia il mare non sarà più lo stesso”.Un ultimo pensiero che vorrei condividere con voi è quello che ci ha portato questa sera qui in chiesa a celebrare l’Eucaristia a tre mesi dal ritrovamento del corpo martoriato di Giulio. Più che un pensiero sono domande rivolte al Signore: che cosa dici di tutto questo? qual è il senso nel tuo disegno che è comunque di salvezza per Giulio, per tutti noi, per l’intera umanità?Una risposta ci viene offerta dalla Parola di Dio scelta per questa celebrazione (1Gv 3,1-12; Salmo 26/27; Gv 17,24-26). Una Parola che ci dice chi siamo e anche chi saremo. Siamo figli di Dio, amati immensamente da Lui, chiamati a essere fin dall’inizio immagine e somiglianza di Lui che è amore e libertà: “Vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente!” (1Gv 3,1). Chiamati un domani a essere simili a Lui: “Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è” (1Gv 3,2). .Purtroppo usando male della libertà l’umanità fin dalle origini ha ignorato il messaggio che le era stato dato e ha scelto di essere Caino, di essere “dal Maligno” e non figli del “Padre giusto”: “poiché questo è il messaggio che avete udito da principio: che ci amiamo gli uni gli altri. Non come Caino, che era dal Maligno e uccise suo fratello” (1Gv 3,11-12). Dai primi tempi dell’umanità si sono moltiplicati i “caini”: a volte persone singole, più spesso organizzazioni, movimenti, partiti, intere nazioni. E, inevitabilmente si sono moltiplicati gli “abele”: singoli uomini e donne e anche gruppi di persone e persino nazioni umiliati, violentati, torturati, uccisi. Talvolta persone finite inconsapevolmente in un ingranaggio più grande di loro che le ha schiacciate; altre volte invece persone che si sono sentite in dovere di lottare per un mondo più giusto, più dignitoso, più solidale e hanno pagato pesantemente per questo, persino con la vita. Gli “abele” perenni sconfitti? vittime perdenti? agnelli sacrificati inutilmente? Per rispondere a questo il Figlio di Dio, il Figlio del Padre giusto, si è fatto “abele”, si è fatto agnello appeso a una croce. Non solo per un gesto impotente di solidarietà: cosa splendida, ma inefficace se l’ingiustizia continua a trionfare. Ma per svuotare dall’interno la logica della violenza e dell’ingiustizia con la logica dell’amore e del dono di sé. Per questo è vero che l’ingiustizia, la cattiveria, l’odio restano anche dopo la croce di Cristo, ma non sono più l’ultima parola. Restano con la loro tragicità, ma ormai sono solo la penultima parola. L’ultima è l’amore misericordioso. Un amore che non confonde bene e male, giusto e ingiusto, vittima o carnefice. Scriveva a questo proposito papa Benedetto nella sua enciclica sulla speranza: “Dio è giustizia e crea giustizia. È questa la nostra consolazione e la nostra speranza. Ma nella sua giustizia è insieme anche grazia. Questo lo sappiamo volgendo lo sguardo sul Cristo crocifisso e risorto. Ambedue – giustizia e grazia – devono essere viste nel loro giusto collegamento interiore. La grazia non esclude la giustizia. Non cambia il torto in diritto. Non è una spugna che cancella tutto così che quanto s’è fatto sulla terra finisca per avere sempre lo stesso valore. […] I malvagi alla fine, nel banchetto eterno, non siederanno indistintamente a tavola accanto alle vittime, come se nulla fosse stato” (Spe salvi, 44). Vorrei concludere citando il passo del Vangelo di questa celebrazione. Non si tratta di un discorso di Gesù, ma di una sua preghiera fatta qualche ora prima di andare sulla croce dove si manifesterà come il “nuovo Abele”. Una preghiera rivolta al Padre per i “suoi”, per coloro che seguono la via della giustizia. Una preghiera che vogliamo fare nostra per Giulio e anche per noi, perché nonostante tutto possiamo avere speranza e continuare a lottare per la giustizia e la verità: “Padre, voglio che quelli che mi hai dato siano anch’essi con me dove sono io, perché contemplino la mia gloria, quella che tu mi hai dato; poiché mi hai amato prima della creazione del mondo” (Gv 17,24). Così sia.
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