Disinformazione in rete?
27 Gennaio 2017
Quando ci ritroviamo a discutere in merito al “mondo” e alla “materia” della comunicazione, nella maggioranza dei casi oggi si parla di “informazione e rete”. Sarebbe meglio però, fare attenzione. E se provassimo a parlare di “disinformazione in rete”? Mi soffermerei allora qui su uno dei tanti aspetti che riguarda anche il senso della giornata dedicata alle Comunicazioni Sociali vissuta il 24 gennaio scorso.Si provi a riflettere alle cosiddette “bufale” che quotidianamente vengono pubblicate su internet o nei social e che provocano il divulgarsi di commenti pericolosi e poco attenti ai quali poi una schiera di persone aderisce credendo cecamente al falso o all’inesatto.La questione – peraltro non solo italiana – della disinformazione è allucinante. La giornata delle Comunicazioni Sociali allora ci invita in questo senso a “tenere cara” la questione della correttezza del mondo dell’informazione.Possiamo fare delle riflessioni sotto più punti di vista e che riguardano chi con l’informazione ci lavora: il giornalista.
La differenza tra fatti e commentiI fatti generano notizie, ma in verità è il giornalista che le crea perché avviene una selezione dei fatti che possono essere ritenuti notiziabili o no. Quindi se le notizie sono in un certo senso “ciò che ne fanno i giornalisti”, si dovranno valutare quelle che interesseranno ai lettori. Questa valutazione è il cuore della professionalità: innesca il processo attraverso il quale un fatto diventa notizia.I fatti raccolgono aspetti ampi, ma una parte di questi resterà inutilizzata, nel senso che il cronista non vi riconoscerà i presupposti della notizia, cioè non riterrà che possano interessare i suoi lettori. Un’altra parte, invece, entrerà nella quantità di materiale su cui ogni giorno viene costruito un giornale: potrà essere utilizzata o scartata, ma sarà stata comunque presa in considerazione per l’interesse pubblico e, quindi, individuata come notizia.Dal punto di vista del linguaggio tecnico della professione, è essenziale stabilire la nascita della notizia in una fase preventiva: quando il giornalista deve affrontare un fatto e valutarlo, lo interpreta, per capire che cosa rappresenta dal punto di vista della notizia. È la soggettività del giornalista che dà forma alla notizia perché egli interferisce sui fatti. Il sistema dei media può accettarla o respingerla, mettendola al centro dell’attenzione o ponendola ai margini, ma la notizia nasce nel momento in cui viene individuata, istituendo così una relazione fra un avvenimento e il pubblico, scoprendo perciò in un avvenimento ciò che può avere senso per un determinato pubblico. A molti fatti che accadono però, bisogna contrapporre la “questione” del commento.L’interpretazione è un elemento fondamentale nella formazione delle notizie e, contrariamente a quanto si può credere, non è l’offerta di una interpretazione ma il suo rifiuto a determinare l’informazione debole o manipolata. Interpretare l’avvenimento non significa esprimere un’opinione ma chiarire o svelare la natura di un accadimento, le realtà nascoste in esso, affrontando pure il problema del linguaggio settoriale che viene per esempio usato nel mondo politico.
L’etica giornalisticaQuale è la condotta che deve seguire chi fa questo mestiere? Quale è il suo fine?Si tratta di capire quale possa essere il senso morale del lavoro dei giornalisti. C’è da “indagare” su quale sia la natura morale del mondo della notizia, i cui confini, con l’avvento dei nuovi media , si sono eccezionalmente dilatati, fornendo significati che sconvolgono i rapporti fra realtà e notizia e fra notizia e pubblico, ponendo inediti interrogativi sulle responsabilità sociali dei giornalisti. Esiste oggi la consuetudine affascinante del professionista come interprete del principio del dire la verità, il sacro principio del giornalismo americano del “telling the truth” in cui si condensano la responsabilità sociale dei professionisti dei media e al tempo stesso apre a una diversa concezione del cronista come divulgatore delle realtà scomode. In verità sappiamo che quello della verità giornalistica è un concetto astratto e relativo: non esiste la verità, esistono le notizie, ma il corpo della verità e il corpo della notizia, come sottolineava Walter Lippmann possono coincidere soltanto per una piccola parte nel caso in cui “le condizioni sociali assumono una forma riconoscibile e misurabile”, e quando si pretende che la stampa fornisca un corpo di verità utilizzando un criterio di giudizio fuorviante fraintendendo la natura ristretta della notizia. Inoltre, è noto che i professionisti della stampa svolgono il loro mestiere all’interno di circuiti di potere, istituzionale o economico, sociale o culturale in virtù dei quali il giornalismo, anche quando dissente su determinati temi, rappresenta l’esercizio di potere. La condizione effettiva in cui un giornalista dà un senso al proprio mestiere è ,infatti, il frutto di un insieme di fattori: la sua personalità, le sue concezioni e le sue convinzioni, la linea editoriale e politica adottata dal giornale, il contesto sociale e culturale in cui egli opera, l’argomento di cui deve occuparsi e molto altro ancora. Questa complessità si ritrova in una pluralità di principi etici: dire la verità, o ciò che può sembrare la verità, è soltanto uno dei compiti morali che riguardano i giornalisti, per cui non può esistere un unico esempio etico, ma si deve scegliere fra modelli diversi.Esistono una pluralità di modelli etici nel campo giornalistico: quello secondo il quale il dire la verità è legato a un senso patriottico – nazionale; il caso nel quale purtroppo non può prevalere la solidarietà umana perché la si deve distaccare dalla professione ( quindi il dovere di informazione entra in conflitto con i valori umani ) e infine il modello etico secondo il quale sia necessario tutelare sempre, e comunque, l’opinione pubblica anche se certi comportamenti sarebbero sanzionabili moralmente, ma servono comunque a scoprire fatti e, quindi, notizie di dominio pubblico.
Interpretazione e trasparenza: un connubio possibile?Si può approfondire, sminuire o addirittura non trattare. Attraverso il registro che si utilizza, la stampa può offrire una determinata immagine del potere piuttosto che un’altra. Spesso succede anche, e questo è fondamentale in democrazia, che facendo a meno di trattare alcuni aspetti politici, sociali o economici di un Paese, si perda di vista il fatto che i destinatari che a un certo punto non sono “solo” lettori ma prima di tutto cittadini, costituiscono interamente il corpo, la base di uno stato che deve poter accogliere delle disposizioni di carattere nazionale.Gli Italiani, a proposito di tutto ciò, stanno vivendo, a mio avviso, una vera e propria fase di transizione lunga e confusa perché si trovano di fronte alla crescita nel campo dei media, della politicizzazione e dell’asprezza delle polemiche. Sempre più spesso il giornalismo diventa nevrotico, si ha un’immagine dell’informazione paragonabile all’agitazione e tutto ciò in molti casi raggiunge l’eccesso non offrendo così un servizio a chi legge.Le notizie finte animano polemiche inutili, e senz’altro da quando la politica è entrata in questo sistema (1994) si sono smarriti i veri valori sulle quali l’informazione dovrebbe vertere. Il conflitto di interessi, la prevalenza degli investimenti pubblicitari di cui si deve riconoscere che stampa, rete e tv beneficiano, hanno poi portato a scontri fra i vari media (fra quelli vecchi e quelli nuovi o fra quelli ideologicamente distanti) che hanno fatto sì che ci sia un abuso dell’interpretazione che prevale sul principio della trasparenza.Il connubio, sarebbe quindi possibile, ma ci si trova di fronte a vari registri del discorso che vanno a influire diversamente sul tema. A esempio, ci si può imbattere in un articolo aggressivo che tende a considerare il proprio punto di vista come unica realtà oggettiva e complessivamente valida; si può essere di fronte a linguaggi assertivi nei quali si affermano diritti ed esigenze che rispettano altrettanto quelle dei nostri interlocutori – destinatari; le parole assiomatiche, invece, pongono su un livello superiore il discorso dell’autore come verità incontestabile e ,dunque, vengono affermati principi per i quali non si offre né si garantisce la possibilità di una discussione.Il caso del ricorso alla satira, come spesso avviene con la storpiatura di nomi e parole attaccando l’avversario di turno irridendolo, dà una connotazione negativa o scomoda al proprio pezzo. Quando si attribuisce a una categoria piuttosto definita di persone un pensiero collettivo, si è di fronte a un registro categorizzante. Nel caso di notizie note e accettate perché sostenute da ragioni profonde, un discorso appare constativo. Altri poi sono i casi in cui si ha a che fare con tipi di scrittura didattica, legittimante, impersonale, partecipativa, probabilista o tecnicista.Forme e contenuti di ciò che la stampa va a trattare debbono sì attirare e persuadere, ma anche puntare sul logico e il credibile. Tramite essi si saprà interrogare la realtà e i bisogni della gente. Il bisogno di conoscere in maniera trasparente deve fare capire prima di tutto a chi svolge questo mestiere ma anche a chi aspira a questa professione che siccome le parole hanno un potere, un inimmaginabile potere, devono essere utilizzate con il solo obiettivo della percezione concreta e mai astratta della realtà.Siamo di fronte a una società sempre più imperfetta in quanto umana e tendente a creare dei conflitti, ma un servizio giornalistico non può e non deve indurre oggi all’indifferenza o allo scontro. Bisogna puntare a rinsaldare e se necessario a ricreare una relazione costruttiva, sana e appunto trasparente fra stampa, lettore – cittadino, mondo politico – istituzionale e società. Quella del compito proprio delle comunicazioni sociali è allora una bella sfida e un costante banco di prova per ogni giorno del prossimo futuro nel campo dell’informazione giornalistica.
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