L’Accoglienza diffusa è possibile
19 Maggio 2017
All’interno dei programmi di accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati, un grande lavoro è svolto dalla Caritas diocesana attraverso Betlem, l’agenzia immobiliare sociale, e la cooperativa “Murice”. Abbiamo incontrato Giovanna Corbatto, responsabile di Betlem Onlus, con la quale abbiamo parlato delle tante attività lavorative e culturali messe in atto per dare a queste persone una reale integrazione, ma abbiamo indagato anche sulle difficoltà che si incontrano nel realizzare piani strutturati di accoglienza.
Dottoressa Corbatto, in quali modi la Caritas diocesana interviene sull’accoglienza ai richiedenti asilo, come si cerca di dar loro delle alternative per le loro giornate?
Per quanto riguarda gli ospiti del CARA a Gradisca, ci è stata offerta dal Comune una stanza, presso l’edificio del Giudice di Pace che si trova esattamente di fronte alla struttura, e qui – già da tempo – abbiamo allestito il Centro Diurno, dove vengono svolte svariate attività che hanno come principali utenti gli ospiti del CARA ma sono tutte pensate anche per la comunità gradiscana. Alcuni incontri vengono anche svolti presso la Biblioteca civica, come i laboratori di “Conversescion”, dove gli italiani insegnano l’italiano agli stranieri e questi l’inglese o un’altra lingua, in un reale interscambio, molto partecipato. Ci sono poi laboratori teatrali, un progetto di coltivazione di un orto, dove i prodotti vengono poi donati all’Emporio della Solidarietà. In collaborazione con altre realtà del territorio vengono svolte numerose attività, sia di pubblica utilità che culturali, cercando di rendere questa presenza una risorsa e un’occasione di crescita, anche culturale, per la cittadinanza.Per quanto riguarda invece la situazione sul resto del territorio, non direttamente come Caritas ma tramite la Cooperativa “Murice”, abbiamo in gestione la struttura di Terranova con il Comune di San Canzian d’Isonzo e abbiamo appena vinto un appalto su Romans d’Isonzo, dove ci sono 16 accolti. All’ultima gara della Prefettura all’accordo quadro abbiamo portato 15 posti dislocati sul territorio: 5 a San Pier d’Isonzo, 5 a Gorizia e 5 a San Lorenzo Isontino.Promuoviamo l’accoglienza diffusa sostanzialmente perché – anche negli ultimi tavoli di lavoro che abbiamo svolto con Enti locali e Prefettura che sta, secondo me, impiantando un buon lavoro convocando i tavoli mensilmente – si vede come in tutte le realtà che hanno in gestione piccole strutture, con numeri ridotti di persone, non si crei l’allarme sociale che può invece emergere nell’avere tante persone da accogliere.
L’accoglienza diffusa, nel lungo periodo, potrà fare la differenza? Quali però anche le difficoltà nel metterla in atto?
Crediamo tantissimo nell’accoglienza diffusa, perché gestire piccoli numeri consente da un lato il riuscire a creare dei progetti realmente individualizzati, dall’altro lato permette di avviare collaborazioni con i Comuni stessi, con i quali si possono effettuare delle richieste alla Regione per dei fondi sul Piano Immigrazione, per la messa in atto di quelli che vengono chiamati “Lavori di Pubblica Utilità”, operando su strutture e aree che sono beneficio di tutta la comunità residente. Quando invece in una struttura ci sono 150 persone, è difficile pensare a questo tipo di progettualità e anche l’impatto sulla popolazione è sicuramente differente.
Su Gorizia, che ha numeri importanti di presenze, quale potrebbe essere la soluzione? È fattibile un’accoglienza diffusa?
Gorizia potrebbe avere l’accoglienza diffusa – e l’aveva fino a dicembre – con i posti dello SPRAR: ce n’erano una quarantina, dislocati in piccoli numeri in tutta la città. Di fatto c’era un numero abbondante di presenze di cui però “nessuno sapeva niente”, perché appunto è un diverso tipo di accoglienza, si fa notare di meno. Ora lo SPRAR non sappiamo bene che fine farà, ma secondo il mio punto di vista non è impossibile pensare a un’accoglienza diffusa anche su Gorizia. Ovviamente bisogna riuscire a reperire appartamenti adeguati e non è cosa facile, da un lato perché alcuni proprietari – anche comprensibilmente – sono un po’ spaventati dall’idea di avere persone con un certo ricambio, dall’altro – non sempre ma accade – i prezzi che vengono richiesti visto che si tratta di richiedenti asilo, sono completamente fuori mercato. Noi come Caritas non accettiamo questi prezzi, non per questioni di profitto ma perché questo significherebbe alzare l’asticella dei prezzi di mercato e ciò andrebbe fortemente a gravare su tutte le altre persone che cercano un appartamento in affitto.La difficoltà, in generale ,del far partire un’accoglienza diffusa, per come lavoriamo noi, è quella di riuscire a trovare i favori dei Comuni. La Prefettura ha fatto uscire un bando dove metteva a disposizione 600 posti. C’erano alcuni Comuni in cui non si potevano ricercare appartamenti perché vincolati, per esempio, alla presenza del CARA o perché ospitano lo SPRAR. Di fatto però si potevano reperire appartamenti in tutti gli altri Comuni senza fare alcun passaggio istituzionale. Per come lavoriamo noi però preferiamo comunque creare un passaggio con l’amministrazione comunale, perché accoglienza diffusa è anche questo: avere un’intesa, un raccordo, una collaborazione con il territorio e con la comunità che vivrà con quelle persone.
Sui Comuni da voi in gestione, quali sono i corsi o le iniziative che maggiormente hanno attirato l’attenzione e coinvolto gli abitanti?
A Romans, oltre ai Lavori di Pubblica Utilità, gli ospiti sono coinvolti in un progetto che stiamo mettendo in atto con le scuole: si chiama “Radici” e prevede, in collaborazione con il Comune, l’Istituto Comprensivo e con l’architetto Claudia Cantarin e il suo studio Doppio Filo, una serie di incontri – che abbiamo svolto tra febbraio e marzo – di confronto tra generazioni; abbiamo chiamato a parlare con le classi una nonna, che ha raccontato la sua storia, che comprendeva un vissuto di guerra, e alcuni dei ragazzi rifugiati accolti a Romans, che hanno raccontato il loro vissuto di guerra; c’è stato poi un confronto tra alcuni genitori e alcuni dei richiedenti che a loro volta sono genitori. Da questi incontri è nato un video, che gli stessi alunni hanno girato e montato, e verrà anche allestita una mostra in Biblioteca.L’anno scorso, sempre a Romans, assieme ai rifugiati e ad alcuni cittadini che hanno dimostrato il loro interesse a prenderne parte, abbiamo svolto al Centro Giovani un laboratorio per creare delle installazioni che andassero ad arricchire alcune aree della cittadina. Sono stati realizzati dei progetti, posti all’approvazione di una “giuria popolare”, quindi c’è stata la creazione delle installazioni, che hanno riunito elementi italiani a elementi afghani, come ad esempio dei giochi da tavolo inseriti sulla superficie di un tavolo ristrutturato nell’area del ricreatorio. All’inaugurazione hanno giocato poi tutti insieme, coinvolgendosi vicendevolmente nei giochi.
Legalmente parlando, cosa possono fare e non fare – a livello di corsi e lavoro – i richiedenti asilo e i rifugiati?
In questo discorso rientra la nostra forte convinzione nell’utilità dell’accoglienza diffusa perché, laddove è vero che i corsi non possono impegnare mille ore al giorno, è anche vero che con numeri ridotti è possibile attivare le progettualità sul piano immigrazione, quindi vederli impegnati in lavoretti come lo sfalcio, la raccolta dei cestini, la pulizia delle strade… È più facile anche riuscire ad inserirli in attività ludico – ricreative se si hanno numeri limitati, entrando maggiormente in contatto con quelle che sono le attitudini delle persone. La normativa prevede che per i primi 3 mesi di permesso di soggiorno per richiesta di asilo politico le persone non possano lavorare; dopo 3 mesi è poi innanzitutto necessario comprendere se hanno competenze valide da spendere, in più solitamente non hanno acquisito ancora una competenza linguistica tale da poter accedere al mercato del lavoro. Quindi tutto sta nel riuscire a strutturare un “contorno”.I corsi possono essere certamente organizzati anche per chi è in attesa dello status di rifugiato, ma il problema secondo me sta nel fatto che dobbiamo renderci conto che sono innanzitutto persone e non una categoria fissa, tutta uguale. Hanno affrontato viaggi incredibili e hanno delle individualità, delle competenze e dei background completamente differenti tra loro: li si chiama tutti “profughi” ma c’è il laureato – al quale si possono proporre attività più culturali, perché ha attitudine allo studio -, così come c’è chi non ha ricevuto la minima istruzione e bisogna insegnargli come tenere una penna tra le dita; spingere queste persone a frequentare un corso di lingua straniera non è così scontato, perché non rientra nel loro background culturale. Quindi, finché sono pochi, si possono studiare percorsi particolareggiati, ma quando ci sono grosse concentrazioni di persone, è difficile riuscire a pensare ad attività che possano andare bene a tutti. Inoltre a volte proporre delle attività ricreative è poco attrattivo per queste persone, perché hanno fretta di iniziare a lavorare: a casa hanno persone che stanno aspettando i loro soldi, hanno investito su di loro indebitandosi. Hanno difficoltà ad accettare attività che non siano lavorative remunerate, perché per loro rappresenta una perdita di tempo: da casa subiscono pressioni incredibili e molto spesso i parenti si trasformano in aguzzini. Chi non è a contatto con questa realtà non immagina le pressioni che queste persone subiscono da casa.
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