Con Moro morirono l’eleganza in politica ed il dialogo

All’anniversario dell’assassinio di Aldo Moro, per me, si rinnova un dolore indicibile. L’ appartenenza era in quella direzione, ma allora la D.C. era più divisa all’interno che dall’esterno. Col mito del “ma una volta…”, si dà a vedere che la politica fosse ambiente santificato (in tutti i partiti). Non era così: nel panorama democristiano, si misurava più differenza fra uno di Andreotti e uno di Donat Catten che fra un comunista e un liberale. C’era guerra interna; minoranze variabili, coerenti come la spera di un amperometro, concupite da ogni parte. Moroteo non ero proprio: ho capito la grandezza dell’uomo col tempo, pensando (poi) al compromesso storico: era ciò che Giuseppe Dossetti postulava, con l’acutezza di cui era capace, negli anni subito dopo la guerra. Se uno vuol capire, e sa un minimo di storia, può smanettare in internet e ci riesce.Moro l’avevo conosciuto di persona, con un’ intera giornata trascorsa coi suoi, a Siusi di Castelrotto (Bolzano). In vacanza con la famiglia, era venuto dal Card. Giacomo Lercaro del quale noi, una sessantina di studenti di tutto il mondo, eravamo ospiti (gratis et amore Dei) per compiere gli studi accademici alla università di Bologna.Moro era in vacanza (se non ricordo male, ospite di una scuola delle Fiamme Gialle) in una località vicina; arrivò la mattina, preceduto dalla scorta. Era col figlio Giovanni, fanciullo, con una nipote, e la consorte Eleonora. La scorta era comandata dal maresciallo Oreste Leonardi, ammazzato coi suoi, a Roma, in quell’orrendo crimine, che, ancora, per cause e dinamica, chiarissimo non è.Il Presidente era elegantissimo; non per ricercatezza: come naturale portamento. La consorte più pronta alla parola, come il bambino, conteso da tutti noi. Al pranzo, non si sbracciò in saluti Moro; schiena dritta, voce misurata; mani con movimenti pacati; discorsi.Quella volta portare i saluti da parte nostra, toccò a un nostro compagno eritreo: neanche lo avessero scelto apposta, voce misurata anche a lui, coltissimo (parlava sei-sette lingue).Col mio abituale collega, Pasquale Piergallini, marchigiano, prima di levar le mense, finimmo con l’Ubi charitas et amor di Paolino d’Aquileia (dov’è carità e amore…); per cantare in quelle occasioni, non occorreva essere dei Pavarotti, ma corretti esecutori sì, il Cardinale, che era sullo stonato, al canto ci teneva, eccome!La giornata filò via fra foto di gruppo, conversazione e foto con Moro, che, pazientissimo, non si negava.Lo rividi alla tivù, ammazzato dagli “Uomini delle Brigate Rosse”, come nonostante tutto, li chiamò un angosciato Paolo VI, nell’appello per la liberazione. Tutti lo hanno drammaticamente visto, raggomitolato nel bagagliaio dell’auto, con barba lunga; lui, elegantissimo, che non aveva – mai – un pelo per storto. Piansi parecchio, come tantissimi italiani. Per pubblici personaggi, avevo pianto due volte: per De Gasperi; una intera giornata; non andai a scuola quel giorno; era (ed è) il mio mito (ed era il mio soprannome da piccolo); e una per Stalin, il “piccolo padre”. Mi era stato dipinto abitualmente come il diavolo (seppi che era stato peggiore), ma, da bambino, mi fece una gran pena che nessuno (nelle nostre terre bianche) piangesse per lui. Mi venne da piangere anche quando morì la Pira; mi trattenni: lo avevo conosciuto, avevo parlato con lui, sempre entusiasta. Piangere sarebbe stato inutilità. Tutti sapevano che la morte lo aveva traghettato dritto in braccia al Creatore; lui, uomo di pace e dialogo, ricordato con accenti commossi dall’Agenzia Novisti, nella Russia comunista.Moro, al di là di tutti i brividi che mi vennero dopo a leggere le sue lettere, a non sapere se era stato fatto tutto il possibile per salvarlo (quello della “fermezza” mi è parsa sempre una balla di questa Italia “veränderlich”, variabile, come il tempo), era stato offeso nella sua dignità intima di uomo elegante, per tratto e per idee. La sua morte è una colpa incancellabile per l’Italia; durerà nei tempi. Rimane una offesa a ogni grado di civiltà e drammatico interrogativo alla politica di quei tempi, che dura ancora.