Integrare e valorizzare, si può
1 Giugno 2017
Dal luglio 2015, con la prima apertura di tre appartamenti a Cormòns con 15 ragazzi in accoglienza, l’ICS – Consorzio Italiano di Solidarietà cogestisce insieme a Betlem Onlus l’accoglienza diffusa dei rifugiati presenti sul territorio inseriti nel progetto SPRAR. Nel settembre dello stesso anno è stata avviata anche l’accoglienza nel Comune di Savogna d’Isonzo, a Gabria nell’ex caserma dei Carabinieri, dove si accolgono 18 ragazzi. Esperienze che stanno dando ottimi frutti, presentando un modello di accoglienza che integra e valorizza le persone che ne fanno parte, come ci ha raccontato Gianni Barbera, coordinatore di ICS.
Gianni, come si svolge nella pratica l’operato dell’ICS?
Attualmente il nostro modo di operare prevede, alla luce del fatto che la categoria “richiedente asilo” non dovrebbe surclassare quella dell’essere umano, di ragionare sulle competenze di queste persone, su ciò che loro portano; in funzione di questo cerchiamo con i ragazzi – e in questo i piccoli numeri aiutano – di concordare un percorso che preveda in primo luogo l’acquisizione dei rudimenti della lingua italiana. Accanto a questo si cerca di farli specializzare, o comunque aggiornare, su quelle che sono le loro professionalità e competenze, per far sì che il periodo dell’accoglienza non sia un periodo vuoto, ma un periodo che possa il più possibile fornire quegli strumenti per poter essere pronti nel momento in cui noi che accogliamo non ci saremo ad accompagnarli.Quindi, per prima cosa si crea un percorso, che condividiamo con il ragazzo e che è flessibile: se sorgono in lui degli interessi – non conoscendo la nostra realtà è possibile si scoprano passioni e possibilità strada facendo – si cerca di orientare il percorso in quella direzione. Inoltre si cerca di aprire il concetto di accoglienza al territorio, cercando di vincolare un messaggio semplice, ossia che l’accoglienza è una cosa normale. È un fenomeno, quello della migrazione, che fa parte della specie umana e cerchiamo di declinarlo all’interno di una “normalità”: questi ragazzi sono iscritti al loro medico di famiglia, al Centro per l’Impiego, partecipano a corsi di formazione, eventi pubblici, si mettono in gioco. A Cormòns per esempio i ragazzi hanno intrapreso sin da subito una bellissima attività con la Casa di Riposo, un’esperienza che sta permettendo a loro, agli anziani e agli operatori della struttura di confrontarsi e scoprirsi più simili di quanto si potesse credere inizialmente. Si crea una relazione umana e questa è la cosa più bella che sorge da questo tipo di attività. Anche con il vicinato si crea un bel rapporto, né più né meno che una comune convivenza tra persone, dove i muri iniziali dati dal non conoscersi vengono abbattuti; abbiamo esempi bellissimi di compartecipazione, per esempio alcuni degli ospiti sono stati invitati alle feste e ai compleanni dei vicini.
In sintesi, in cosa consiste lo SPRAR, il Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati?
Lo SPRAR dovrebbe essere il modello unico di accoglienza, ma per svariati motivi non è mai decollato pienamente; ci sono i CAS – Centri di Accoglienza Straordinaria – e questi fanno capire come nel nostro Paese il fenomeno sia gestito ancora in maniera emergenziale, anche se è presente ormai da tempo. All’interno dello SPRAR abbiamo ragazzi che sono in una seconda fase di accoglienza: già titolari di una forma di riconoscimento, hanno già acquisito i rudimenti della lingua italiana e hanno già alle spalle un percorso di istruzione e formazione che, nello SPRAR, cerchiamo di impostare per la valorizzazione ulteriore delle competenze personali, attraverso corsi più specifici. Nello SPRAR puntiamo moltissimo sullo studio della lingua italiana, che dà maggiori possibilità sul territorio: abbiamo ragazzi che si sono iscritti alle scuole medie per sostenere l’esame e completare poi il ciclo di studi, altri che hanno frequentato corsi professionalizzanti – per esempio nel settore della ristorazione -, completandoli e in alcuni casi trovando lavoro. In questo momento abbiamo poi in accoglienza un ragazzo che ha capacità manuali eccezionali nella realizzazione di calzature e ci stiamo muovendo per la valorizzazione dell’autoimprenditoria, stipulando accordi per dei tirocini. Altri ragazzi si sono specializzati come saldocarpentiere, una professionalità piuttosto richiesta sul territorio e alcuni hanno lavorato ai cantieri a Monfalcone, tramite le agenzie interinali. Piano piano tutti i ragazzi si stanno inserendo, con un occhio ovviamente al loro futuro: i periodi di accoglienza sono, per ovvie ragioni, limitati nel tempo; puntiamo quindi a dare tutti gli strumenti affinché, una volta fuori dal progetto, possano comunque inserirsi, trovare una casa – e per uno straniero è complicato -, vivere la loro vita in maniera autonoma.Questa è quindi quella che potremmo definire la “seconda fase” dell’accoglienza. La prima è quella – se così vogliamo definirla – preparatoria a questo: i ragazzi arrivano non conoscendo la nostra lingua e si avvia per tanto una fase di “alfabetizzazione” all’Italiano, vengono svolti dei corsi di sicurezza sul lavoro e per l’implemento della manualità. Si punta poi sempre a far interagire i ragazzi con il territorio e, con la collaborazione dei Comuni che ospitano il progetto, i ragazzi sono coinvolti in programmi che prevedono, per esempio, la cura del verde pubblico, lavoretti di manutenzione, gli orti sociali. Ci muoviamo poi molto con le scuole, una cosa alla quale teniamo particolarmente, perché riteniamo sia molto importante far percepire ai giovani e giovanissimi che questi ragazzi – molto spesso visti come “altro da noi” – siano alla fine molto più simili a noi di quanto si creda e si abbattono così numerosissimi pregiudizi.
Quali sono i maggiori ostacoli incontrati lungo il percorso sia dai richiedenti asilo che da voi operatori del settore dell’accoglienza?
Lavorando in quest’ambito si impara e si continua ad imparare. La difficoltà più grande che abbiamo incontrato credo sia stata il cominciare a capire come poter avere con i ragazzi un rapporto che fosse improntato il più possibile alla fiducia, perché effettivamente c’è una diffidenza di fondo: loro si trovano di fronte a delle persone che li accolgono ma non sanno chi queste siano e, reciprocamente, anche chi accoglie non sa chi siano questi ragazzi. Ci sono quindi dei momenti di “osservazione”, per capire un po’ cos’è opportuno dire e cosa no, com’è opportuno approcciarsi. Tutto sommato poi, una volta superata questa titubanza iniziale, tutto prosegue molto naturalmente ed emergono più le similarità che le differenze.Da parete loro invece a volte c’è uno shock culturale: fanno difficoltà a comprendere i vari iter burocratici del nostro Paese ma, anche in questo caso, una volta acquisito il meccanismo, lo spaesamento iniziale viene superato e sono molto autonomi nel seguire le procedure.
Alla luce delle esperienze fatte all’interno dello SPRAR, questo programma può rappresentare una soluzione a tutti i problemi che l’accoglienza sta vivendo nel nostro Paese e sul territorio?
Una piccola realtà, che non sia un grandissimo centro con decine e decine di richiedenti asilo, sicuramente favorisce il concetto di normalità: i rapporti di vicinato, il vivere la città come ogni altro cittadino, tutto questo innesca un meccanismo virtuoso. Le realtà diffuse aiutano anche il rapporto numerico tra operatori ed accolti, nonché i contatti sul territorio, che permettono di far sì che i ragazzi percepiscano che ci sono delle possibilità, che vale la pena impegnarsi per qualcosa e per la comunità. Gestire numeri grandi di ragazzi in accoglienza cambia le cose. Ci sarebbe da creare i presupposti affinché, pian piano, ogni Comune possa aprire le porte ai richiedenti asilo; questo permetterebbe da un lato di diminuire il carico su città come Gorizia, che si trovano a gestire numeri importanti di persone, e dall’altro ai Comuni di beneficiare dei ragazzi, che danno tanto. C’è molto lavoro da fare in previsione dei prossimi anni, in particolar modo con le “nuove leve”, i ragazzi e ragazzini delle scuole: è molto importante ragionare con loro sul fatto che non si tratta di chissà che “mostri” in arrivo nelle nostre città, ma di ragazzi spesso poco più grandi di loro e con i quali si possono trovare molti tratti in comune.
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