San Pier d’Isonzo: 250 anni dalla consacrazione della parrocchiale

Il 21 giugno del 1767, in occasione della sua prima visita pastorale nelle parrocchie del Territorio di Monfalcone, l’arcivescovo di Udine, mons. Giovanni Girolamo Gradenigo, consacrò la nuova chiesa parrocchiale di San Pier d’Isonzo dopo aver consacrato, qualche giorno prima, il nuovo Duomo di Monfalcone e la chiesa di Santa Maria Maddalena di Begliano. Se ci limitassimo a leggere i resoconti delle visite pastorali di allora, noteremmo che il momento della consacrazione è  registrato sinteticamente, a fronte di tante altre notizie riguardanti i momenti della liturgia, lo stato degli edifici di culto e la situazione del clero e della comunità. Ma, possiamo ben intuire, non si trattò di un evento marginale. Non solo per la valenza religiosa dell’atto: non dimentichiamo che, per il piccolo Territorio di Monfalcone, il XVIII secolo fu un epoca di grande fervore nell’edilizia sacra. Tante le chiese che vennero riedificate o sensibilmente modificate in quegli anni. Tra queste appunto la nuova parrocchiale di San Pier.Arrivare alla costruzione di una nuova chiesa era, allora come oggi, il punto d’arrivo di un percorso complesso, non solo per le notevoli risorse necessarie, ma anche per le sue motivazioni. Particolare il caso dell’antica e vasta pieve di San Pietro, il cui territorio era attraversato da un confine di Stato: se la sede titolare e molte delle ville da essa dipendenti si trovavano negli Stati veneti (ovvero nel Territorio di Monfalcone), i paesi di Villesse e Sagrado, ad essa legati, erano invece sottoposte al governo della Casa d’Austria. Proprio per garantire il proprio controllo anche su Villesse, i pievani di San Pietro avevano a lungo posto la propria residenza principale oltre Isonzo. Inoltre proprio il rapporto con il fiume era problematico se, come riportato nell’antico Catapano di Villesse ora perduto, nel 1490 una piena del fiume aveva distrutto la chiesa parrocchiale di San Pietro. Questa notizia rende complessa la ricostruzione della storia delle chiese poste a capo dell’antica pieve, se messa in relazione con il fatto che nel 1547 venne comunque visitata a San Pietro dal rappresentante del Patriarca una chiesa descritta come vecchia e cadente, ma in ogni caso officiata; anzi il visitatore di allora, Luca Bisanzio, indicò che andava rapidamente restaurata. Vi erano contemporaneamente due chiese nel piccolo abitato di San Pietro, una distrutta dal fiume e una, in posizione più sicura, al posto dell’attuale? Così sembrerebbe, anche perché non lontano dall’Isonzo è attestato il toponimo “Farus”, antico termine di ascendenza germanica che indicava l’abitazione del parroco.Quindi, quella che dal XVI secolo era con sicurezza la chiesa plebanale, circondata dal cimitero e dalla centa (struttura difensiva che tradisce un’origine medievale del sito), nel XVIII secolo doveva presentarsi in condizioni piuttosto precarie. Possiamo immaginarla come una malconcia chiesa medievale, non certo degna di essere il centro di una vasta pieve con oltre dieci filiali. Come leggiamo nel III Libro dei matrimoni di S. Pietro, il 18 settembre 1738, mentre era pievano il nobile Ortensio Buralli, “si gettò il primo sasso delle fondamenta della nuova erezzione della Veneranda  Chiesa di S. Pietro del Lisonzo Matrice della Pieve”. Capomastro cui era affidata la costruzione era Maurizio Baroffi da Udine. Prima era stata convocata la Vicinia (ovvero l’assemblea dei capifamiglia di S. Pietro) che doveva approvare l’avvio della costruzione. Può essere significativo che proprio tra il 1738 ed il 1740, si dovette procedere ad intervenire più volte sul tetto della vecchia chiesa proprio mentre iniziarono i lavori di quella nuova, come testimoniano le note di spesa della Chiesa annotate con meticolosa precisione. L’impegno economico era notevole e non sempre si poteva pagare in denaro: più d’una volta il capomastro ed alcuni fornitori vennero infatti pagati con botti di vino.Le note di spesa ci dicono che nel 1742 si pagò per fare il pulpito mentre l’anno successivo per la facciata. I lavori sembrano procedere con una certa rapidità se, nel 1747, si pose mano al tetto del coro e di due cappelle laterali e si mise la croce sulla sommità della facciata. Contemporaneamente si iniziarono ad ordinare le pietre per l’erezione del campanile (che sarebbe avviato in seguito e completato sotto la guida del capomastro Lorenzo Martinuzzi nel 1780). Nella visita pastorale del patriarca Danile Dolfin del 1746 troviamo l’altar maggiore non consacrato e i due altari della B.V. della Consolazione e di S. Rocco (entrambi non fissi). Il salto è evidente se si pensa che la vecchia chiesa oltre all’altar maggiore (che era consacrato), conteneva gli altari di S. Rocco, S. Giovanni Battista e S. Osvaldo. Il patriarca si trovò davanti ad una situazione ancora precaria, con la fabbrica della chiesa nuova piuttosto avanzata, mentre non è chiaro quanto fosse ancora in piedi di quella vecchia.A guidare la pieve arrivò nel 1750 il nobile Adriano di Sbroiavacca, il quale pose la sua residenza prima a Cassegliano e poi a S. Pietro. L’immagine che posiamo ricavare dalle note di spesa è che ormai, a metà degli anni ’50 del ’700, le strutture murarie fossero già molto avanzate, ma a questo punto si ebbe un rallentamento. Situazione che fu superata grazie al generoso lascito di don Antonio De Vit, sacerdote originario di S. Pietro. Questo permise di proseguire la costruzione della chiesa e di avviare quella del campanile, del quale c’era particolarmente bisogno: da un documento del 1754 sappiamo che vi erano due campane sospese su due travi, che a malapena si sentivano in paese.Sarebbe stato il nuovo pievano, il conte Antonino Antonini, a San Pier dal 1756, a portare a termine l’opera, per la quale non mancò di intervenire personalmente. L’Antonini, di nobile ed importante famiglia udinese che aveva anche importanti possedimenti a Saciletto e Cavenzano, era stato gesuita. Venne incaricato della pieve di S. Pietro che disponeva tra le parrocchie del Territorio del beneficio più sostanzioso. Il suo impegno per la pieve e la sua preziosa opera caritatevole gli sarebbe poi valsi il ricordo perpetuo della comunità e l’onore di trovare sepoltura al centro del presbiterio della nuova chiesa.Sotto i suoi auspici, nel 1761 venne acquistata una pala per l’altar maggiore di Michael Lichtenreiter, pittore di origine tedesca che aveva la propria bottega a Gorizia. Ormai, nel 1762, la costruzione era terminata. Ma non l’apparato decorativo e liturgico. Infatti, quando l’arcivescovo Gradenigo consacrò la chiesa doveva essere almeno parzialmente pronto l’altar maggiore, che disponeva di un tabernacolo in marmo, ed anche il fonte battesimale. Così anche le due teche per le reliquie e gli olii santi. Il verbale della visita cita solo due altri altari: quello della Beata Vergine e di Sant’Osvaldo, che avevano “il portatile”, ovvero non disponevano di una mensa marmorea fissa ed erano presumibilmente ancora in legno.  L’attività per completare gli altari e l’apparato decorativo continuò quindi negli anni successivi. Nel 1778 vennero acquistate due statue in pietra da Venezia ed un altare. Si tratta delle statue di S. Pietro e di S. Paolo che ornavano l’altar maggiore (quelle attuali sono un rifacimento di Giovanni Battista Novelli). Vennero impostati due altari laterali: quello della B.V. della Consolazione e (sempre nel 1778) quello di S. Giuseppe, ovvero i due altari più vicini al presbiterio. Ne venne incaricato l’altarista Francesco Zuliani detto il Lessano, il quale successivamente (nel 1781) stipulò un contratto con l’Antonini per completare gli altari già avviati e realizzare quelli che mancavano. I primi due erano quindi pronti in occasione della visita successiva dell’arcivescovo Gradenigo (1782), quando appunto il visitatore cita appunto i due altari della Beata Vergine e di San Giuseppe (quest’ultimo ancora con il “portatile”), mentre dice esplicitamente che “gli altri due sono in fabbrica”. Questi erano dedicati a S. Teresa (il primo a destra) e a S. Rocco (il primo a sinistra). Nella successiva visita del 1795 gli altari erano tutti completati. Le mense, i paliotti e le alzate sono tali e quali le vediamo oggi. Non abbiamo invece notizie delle pale d’altare, disperse durante la guerra, assieme a quella dell’altar maggiore. L’attuale statua della Madonna della Consolazione, opera lignea di artista tirolese, è stata collocata nel 1908, al posto di una vecchia immagine che però non era una statua completa: come spesso accadeva nelle nostre chiese, questa aveva scolpiti in legno solo il volto e le mani (della Madonna e di Gesù bambino), tenuti insieme da assi di legno; il tutto era ricoperto da stoffe.All’inizio del ’900 venne realizzato e collocato a metà della parete di sinistra della navata un altare in legno per ospitare la statua di Sant’Antonio, che oggi si può vedere nella nicchia del primo altare di destra. Sempre in quegli anni venne realizzata la cantoria ed il primo organo della chiesa. Inoltre il pittore Giulio Justulin realizzò figure di angeli nel presbiterio, perdute in seguito agli eventi bellici. Gravi furono nel complesso i danni subiti durante la prima guerra mondiale (soprattutto il crollo del campanile e la caduta del tetto del presbiterio), che avevano sensibilmente rovinato la chiesa. Nel 1917 il Genio militare italiano intervenne ripristinando alla meglio le strutture murarie compromesse ed il tetto, tanto che la chiesa venne riaperta al culto e riconsacrata da mons. Angelo Bartolomasi, ordinario militare, il 5 agosto di quell’anno. Nel dopoguerra si dovette necessariamente porre mano di nuovo ad altri interventi strutturali e decorativi, cercando in parte di risistemare quanto perduto o realizzando nuove opere, come l’affresco con la Gloria di S. Pietro sul soffitto, del tutto nuovo, della navata.

Incontri

– lunedì 26 giugno,ore 20.45: conferenza del dott. Ivan Portelli sulla storia della Chiesa parrocchiale– giovedì 29 giugno, ore 18.30: S. Messa patronale presieduta dall’Arcivescovo mons. Carlo Roberto Maria Redaelli, animata dal Coro Aesontium di San Pier d’Isonzo