Mons. Klinec: una tesi da rileggere
14 Luglio 2017
Traendo spunto da una serie di anniversari singolarmente concomitanti (CV dalla nascita, LXXX dalla consacrazione sacerdotale e XL dalla morte), invito i lettori della “Voce Isontina” a soffermarsi brevemente sulla figura di mons. Rudolf Klinec (1912-1977), cancelliere arcivescovile e canonico metropolitano, nativo del Collio, in quel di Vipulzano – Vipolže. Non è mia intenzione tracciare una biografia del compianto prelato, reperibile in autorevoli repertori, quanto piuttosto cogliere l’occasione di condividere una personale riflessione a partire da un’altra ricorrenza a lui correlata, ossia la pubblicazione della sua tesi di laurea in diritto canonico, avvenuta nel 1942 per i tipi di Lucchesi, esito di un proficuo percorso didattico nel pontificio Ateneo Lateranense, portato a termine secondo gli intendimenti dell’allora principe arcivescovo mons. Carlo Margotti. Si tratta de “L’attuazione della legislazione ecclesiastica di Giuseppe II nell’archidiocesi di Gorizia”. Lo stesso prototipo goriziano vide contestualmente la luce come numero 35 della collana delle tesi del “Pontificium Institutum utriusque iuris” della stessa università romana munito, oltre che dell’imprimatur dell’ordinario diocesano, anche dell’approvazione dei due relatori: Giacomo Violardo, professore di diritto canonico (poi cardinale sotto Paolo VI), unitamente al friulano Pio Paschini, dal 1932 rettore dell’Ateneo e professore di storia ecclesiastica.
L’impostazione storicaLo scritto, redatto in lingua italiana, segna il compimento di un ciclo di studi iniziato sul finire del 1937 e fin dalle prime pagine si percepisce la prevalenza dell’impostazione storica anche nell’ambito della trattazione della disciplina giuridica; da allora, è noto, mons. Klinec non abbandonerà più l’interesse per la storia della propria terra e condurrà con cristallina coerenza un fervido impegno nel campo della cultura al quale tutt’oggi chi si occupa di studi storici – e non solo – è debitore. Benché fosse quindi un’opera prima, essa era già fornita dei tratti che qualificano un contributo destinato a permanere tra le pietre miliari della storiografia di settore: una vasta ed approfondita cognizione delle fonti d’archivio, la padronanza delle categorie interpretative nella disciplina giuridica oltre che in quella storica, l’utilizzo di una letteratura scientifica fedele alla tradizione pluriculturale e plurilinguistica del Goriziano, in grado di spaziare dall’ambito sloveno a quello austro-tedesco ed italiano. Forse oggi tutto ciò potrebbe apparire scontato, almeno in linea di principio, ma occorre tener ben presenti le drammatiche condizioni in cui la società del nostro territorio di confine si era trovata a vivere in quegli anni di guerra, in particolare il mondo cattolico sloveno, stretto tra l’oppressione nazionale attuata dal regime fascista e l’alternativa, pressoché unica, dell’adesione al movimento di liberazione, egemonizzato, fin da subito, dall’attività clandestina del partito comunista.
Un parallelismo storico?Sulla base di tale considerazione, scorrendo la lettura dei tredici capitoli in cui si articola la tesi, è maturata un’impressione che mi sento di esplicitare, stimandola non del tutto peregrina: don Klinec (e con lui i superiori che lo hanno seguito nella scelta del tema e nella stesura dell’elaborato) ha affrontato la questione delle riforme politiche e strutturali ricercate ed attuate dal figlio di Maria Teresa sul finire del secolo XVIII soprattutto a danno dei secolari diritti della Santa Sede e della Chiesa romana nello stesso momento in cui le autorità politiche fasciste tentavano di perseguire l’assimilazione degli slavi d’Italia per mezzo di pesanti ingerenze che minavano la libertà della Chiesa fin dalle fondamenta. Anzi: nel 1942 tali obbiettivi erano giunti ad un livello oppressivo quasi parossistico, proclamato dallo stesso Mussolini che proprio a Gorizia (31 luglio) invitava ad applicare inflessibilmente la “legge di Roma” contro tutti i nemici, esterni ed interni; appena un anno prima s’era svolto il primo sinodo arcidiocesano, occasione (persa) di romanizzare una compagine ecclesiastica che alle due sponde del Tevere pareva troppo poco latina ed ancor meno italiana.L’ambivalente atteggiamento tenuto da mons. Margotti, almeno fino al 1943, sembrava ammiccare alle assurde pretese assimilazionistiche, quantunque sia plausibile ipotizzare che il presule tentasse di organizzare una qualche forma di resistenza e di ritagliare, secondo la sua ottica romanocentrica ed autoritaria, uno spazio minimo di autonomia o di tutela nazionale, almeno rispetto alle istanze più estreme. Ecco allora profilarsi un filo rosso, ovviamente mai apertamente evocato dall’autore, che porta ad individuare una sottile ma convincente analogia tra la politica di Giuseppe II e quella del fascismo di frontiera, ambedue miranti ad affermare, mutatis muntandis, la totale supremazia degli interessi dello Stato accentratore rispetto a qualsiasi altra forma di aggregazione sociale sottoposta alla propria sovranità o ad essa tangente. Certo, l’Asburgo voleva consolidare nelle proprie mani una forte ed efficiente amministrazione centrale a spese di diversi centri di sovranità (Stato moderno), mentre il partito del littorio, dalle velleità totalitarie, intendeva portare tale principio alle conseguenze ultime, in modo da ricondurre ogni cosa in capo allo Stato, cedendo alla tentazione “statolatrica” già stigmatizzata dal papa Pio XI nei documenti magisteriali. Don Klinec è severo nel valutare i proponimenti dell’ “imperatore sacrestano”, incurante di calpestare l’autonomia giuridica della Chiesa nel campo della riorganizzazione territoriale ecclesiastica, nelle relazioni con il Papa ed i vescovi, nell’amministrazione dei beni temporali della chiesa, sino a toccare la formazione del clero, l’ordine del culto divino, la predicazione sacra e l’organizzazione dell’istruzione religiosa. L’accostamento con il fascismo è più marcato laddove Klinec analizza le regioni del fallimento del Giuseppinismo, ricercate nella “negazione dei diritti della vita reale” (p. 190), ossia nel tentativo di violare il sacrario della stessa coscienza individuale e collettiva di un popolo, non limitandosi alle “attività esteriori”, spingendosi fino a “toccare le stesse intelligenze ed i sentimenti più intimi” (ivi).Un progetto fondato sulla sabbia, destinato a fallire miseramente e così fu. Come non pensare alle pressioni, alle intimidazioni, ai soprusi statali che fin dagli anni Trenta del Novecento colpirono il clero al solo scopo di inibire l’utilizzo della lingua slovena nella liturgia, nell’insegnamento della dottrina cristiana, nella predicazione della parola divina? Se si dà credito a questa suggestione, il lavoro di don Klinec può essere reputato pionieristico non limitatamente all’acuta considerazione di avvenimenti oramai lontani e superati; la sua analisi storica assume un valore squisitamente civile tanto da sfidare, direi con coraggio, sul piano d’una lucida analisi, i postulati imposti dall’ideologia imperante ritrovando, nei limiti dell’uragano giuseppinista – la cui vittoria fu per i su espressi motivi soltanto apparente e di breve durata -, le ragioni del prossimo fallimento di una seconda ed altrettanto grave sopraffazione politica perpetrata a danno di un popolo intero (la Slovenia era allora occupata a nord dal III Reich, a mezzogiorno dall’Italia, con la cosiddetta provincia di Lubiana, eretta in seguito all’occupazione della Jugoslavia da parte delle forze dell’Asse).Può darsi che questa mia lettura possa essere ritenuta alquanto viziata dal senno del poi, specie nel pensare di attribuire all’autore l’intenzionalità dell’accostamento; mi piace altresì pensare di aver individuato uno dei tanti velati segnali di quell’insanabile distacco venutosi a creare tra la Chiesa ed il regime in una fase in cui la dittatura aveva superato il punto di non ritorno. Va detto che la produzione storico-documentaria susseguente di mons. Klinec, dalla quale emerge una coscienza nazionale già consapevole, maturata alla luce della viva esperienza fin dagli anni della formazione sacerdotale, spezza una lancia a favore di queste congetture personali. “Orbene – così concludeva don Klinec la sua tesi – l’attuazione di teorie e dottrine contrarie ai diritti inviolabili dello spirito e della vita reale (…) dovevano quindi portare alla triste esperienza che nemmeno il dispotismo era capace di riportare vittoria sulle persuasioni riluttanti, sui costumi e tradizioni dei popoli, sui diritti inviolabili della Chiesa” (ivi). In estrema sintesi, un pensiero che ricalca le appassionate difese degli usi e delle prassi care al popolo sloveno rimostrate con tanto vigore dai pastori in cura d’anime durante la fase preparatoria del sinodo goriziano: anche don Rudolf stesso vi prese parte, nella veste di parroco di Sable Grande – Velike Žable, nella valle del Vipacco.Le vicende che di lì a poco interessarono la nostra regione, dopo l’estate del 1943, rivelarono con impressionante realismo la solidità di tali argomentazioni.
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