“Una città in guerra – Cormons 1940-1945”

Presentato in municipio a Cormons, con intermezzi musicali dei “Maquis”, letture di Lucia German, introduzione di Dario Mattiussi, il libro di Luciano Patat, che ha illustrato la vita della cittadina del Collio, le vicende belliche, quelle di chi andò in guerra e di chi non tornò. Viva attenzione e partecipazione del folto pubblico.Partiamo dal formato. Patat ne ha scelto uno corposo: riesce a spalmarvi adeguatamente (più di 300 pp.) una materia – irta di nomi, dati e date – che, altrimenti, avrebbe bombardato occhi e intelletto del lettore.È programmato con intelligenza: buona dose di fonti scritte: Archivio Centrale dello Stato, Archivio di Stato di Gorizia, Archivio della Parrocchia in Cormons; Archivio Comunale di Cormons – soprattutto – setacciato metodicamente; Archivio personale dello stesso Autore; stampa dell’epoca, con qualche puntata a testimonianze orali. Fonte particolare, la fotografia assai ben rappresentata: costituisce un “video”, essenziale e ricco, per la nostra età ingolfata di immagini; offre, soprattutto ai giovani, elementi di appoggio alla narrazione; non ultimo merito, salva in una pubblicazione foto che spesso avrebbero avvenire infausto.Le note, non assillanti, a piè pagina, pienamente fruibili, evitano defatiganti e distoglienti scorrerie a fine testo, per averne caratteristiche e provenienza; poi, soprattutto, ci sono. Quando prendeva in mano e leggeva uno scritto di storia, a varia profondità e ampiezza, il grande storico Carlo Guido Mor, a fine incursione, magari ne tesseva le lodi; se non c’erano le note, oltre che i necessari corredi di contenuto, forma e capacità di analisi, lo sottolineava con un “Sì, però non ci sono le note…”: tutt’altro che un complimento!Le note agganciano alla realtà; parlano dell’Autore, raccontano con quanta agilità si muova col metodo e col tempo; offrono spunti dialoganti col lettore che volesse approfondire; danno prova della serietà e attendibilità d’ un lavoro.Con la bibliografia, Patat ha scelto impianto leggero, sufficiente al proprio uso. A che servirebbero caterve di titoli, in una pubblicistica sterminata sul periodo? Il lettore più distratto sa quale sia la messe di pubblicazioni solo per le operazioni belliche o segmenti, più o meno ampi, di esse.L’assunto, che sottende alla nascita del libro, è l’ usare una lente d’ ingrandimento su Cormons e il suo territorio nel periodo della guerra: da inizi a liberazione. Sul resto, Patat ha già scritto, in numerosi e poderosi lavori, che trattano della zona di frontiera; della nascita, sviluppo e fine del fascismo, per la storia più generale; e sulle persone, come gli antifascisti dell’Isontino e della Bassa Friulana, per quella più particolareÈ il libro d’ un’ epoca a noi più vicina di quanto gli anni non riescano a dire: intricata, spinosa, dolorosa. Più è “locale” e più può “far male” o, quantomeno, far discutere, dar luogo ad ulteriori analisi. La storia si fa per addizioni; questa è locale e, insieme, internazionale: per i Cormonesi che il fascismo scagliò a combattere, soffrire e morire ai quattro venti, e per essere Cormons città di confine e di frontiera, ove si intersecano Friulani, Italiani, Sloveni, con le ondivaghe, sconvolgenti variabili statuali dal primo ’900. Ci sono i drammi storici e personali di “vincitori” e vinti, anche se, per usare le profetiche parole di Ungaretti, dette a Gorizia nel 1996, in questo mondo, riguardo le guerre, non esistono vittorie, se non per “illusione sacrilega”.Qui ogni Cormonese può trovare riferimenti locali e financo personali; chi Cormonese non è, può vivere il dramma d’ una terra di confine, che si assomma al già tremendo dramma della guerra.Capitoli 12, paragrafi 72, a sottolineare l’ anatomia, puntuale e precisa, degli anni di guerra. Anche questo è un pregio del libro: un sano e friulano “no strazzâ peraulis”, non sprecare parole. C’è la storia delle idee, e un messaggio (non l’unico) che se ne può trarre: stare attenti all’idea di nazione, se tracima nel nazionalismo; nel tempo, quando il movimento si innesca, è come un piano inclinato, non si sa dove si va a finire. Un pericolo più che mai attuale. Vichiani “corsi e ricorsi” della storia? No, situazioni diverse, ma si comincia allorché si tratta di semplici aggettivi, poi branditi come nomi (“nostri” e “loro”): dimenticano la comune umanità.Entrare negli argomenti, sarebbe come  – trattandosi di Cormons e di Collio – trar ciliegie da un paniere: ti si aggrappano altre e altre e altre…Però qualcosa bisogna dire, non per dar fiato alla bocca, esercizio già esageratamente praticato, ma per sentire il pathos che affiora qua e là nel libro, nonostante l’obiettività con cui si vuole trattare gli argomenti.Prendiamo le foto: c’è qualcosa di più triste, raggelante d’ una foto segnaletica? Non si avverte sofferenza, umanità violata? O una semplice lettera: di Bruno Braida, falegname – 24 anni – alla madre. Prima di partire per la Russia, nel ’42, chiede con urgenza di mandargli dei soldi; si capisce con quale sforzo: la rassicura, “ti li restituirò” al ritorno; a inizio lettera, del ritorno era convinto; termina con un “almeno spero”. Finirà la vita nel gelo di Russia, con la peggior condizione, per chi resta: “disperso”. Disperazione per genitori, parenti; peggio che certezza di morte. Il dramma della Russia, il più sanguinante nelle infami imprese del fascismo, è sottolineato da due cartine, apparentemente asettiche, ma che raccontano e raccontano.Bene ha fatto il Centro “Leopoldo Gasparini” di Gradisca a pubblicare un libro, che si aggiunge agli oltre 70 titoli patrimonio del suo catalogo e della conoscenza storica: è sempre difficile parlare di guerre perdute  (nel 2015 non si suonarono fanfare. come per i 100 anni della “grande” guerra…). Chi scrive queste semplici note, ha segnato a margine uno sciame di punti di tanta umanità e tanta efferatezza: dai poveri, agli Ebrei, perseguitati fin qui; dalle decine di morti in varie parti del mondo, a quelli finiti nei Lager e nei campi di concentramento; dalla protesta della gente per la mancanza di farina per la polenta, alla storia di Vanni Padovan, la cui madre muore in campo di concentramento.Il fascismo ci sapeva fare con la propaganda, che poi era unica: usava radio, cinema, pittori, cartellonisti di grido.Qualcuno dirà, ammirato, anche della protezione dell’infanzia, della attenzione alla maternità. Il mezzo era nobile, il fine di bestialità unica: migliorare la “razza”; salvaguardare le donne come “fattrici”, non madri, usate per la propaganda, come i bambini, che dovevano crescere, far numero, per consentire all’Italia di “contare” nel consesso delle nazioni e degli stati.Sappiamo com’ è andata; e questo palpitante libro di Luciano Patat ne è una conferma.