Quell’unica vocazione battesimale
16 Aprile 2018
Ogni tempo ha i suoi miti e i suoi sogni (e le sue illusioni), come anche le sue emergenze che nel tempo rischiano di diventare tradizioni e ricordi, non sempre riconosciuti e facilmente criticati dai contemporanei che (anzi) non perdono l’occasione di giudicare come passatisti – cioè, con la testa rivolta al passato – quanti magari con qualche eccesso, continuano a crogiolarsi nei ricordi, magari anche con il rischio di trasformarli in miti intoccabili. Un rischio che, prima o dopo, accomuna tutti, anche i più critici e che ha una facile spiegazione proprio nell’età che passa e nel comodo ricorso a ricordi piacevoli e memorie positive. Un rischio, però, da correre.È il caso – quest’anno – del “mitico 1968” al centro di paginate di rievocazioni – più o meno realistiche – e di altri avvenimenti accaduti appunto cinquanta o quaranta o trenta anni fa. Nella nostra, come del resto nelle piccole e delocalizzate comunità, più che il ricordo di grandi avvenimenti internazionali e nazionali, destinati a essere riconoscibili tra noi con qualche ritardo, gli ultimi degli anni ’60 sono stati caratterizzati da incontri e vicende con la presenza di alcuni protagonisti della stagione conciliare che aveva posto in risalto l’impegno terzomondiale di gruppi ecclesiali e giovanili. Una prospettiva entusiasmante.È il tempo dei centri come il Cuamm, della presenza del Pime in diocesi, oltre che gli anni di M.L. King, dei Kennedy e di altri martiri per la libertà, contro il razzismo, la povertà e a favore dei diritti civili.Il Terzo mondo con i problemi dello sviluppo, le vicende tragiche della fine del colonialismo e dell’apparire dei popoli nuovi alla ribalta della storia e comunque della cronaca – era balzato all’ordine del giorno. In particolare, le comunità ecclesiali – da sempre impegolate in una gara di amore attraverso le missioni ed i missionari – avevano a cuore la sorte e il futuro di tanti uomini e donne sopraffatti dalla miseria, dallo sottosviluppo, dalle malattie e dalla mancanza di tutto. Ogni parrocchia, anche la più piccola e sperduta, conservava gelosamente un angolo di attenzione e di impegno a favore, appunto, del Terzo mondo. Di più, gruppi ed associazioni, erano i testimoni convinti, riconoscendosi in quelle idealità. E le ragioni – oltre che quelle della diffusione del fede – erano appunto la solidarietà, la fratellanza, la costruzione comune di un modo unito, più giusto e umano. Una parte rilevante era stata data dal contributo attivo ed entusiastico dei “missionari”, laici e sacerdoti, che giravano per le parrocchie e nei gruppi… bene inseriti in una storia ed in una tradizione – quella del Goriziano – che vantava sacerdoti e missionari laici distribuiti nei cinque continenti, missionari che erano conosciuti da noi e che continuavano ad avere contatti e corrispondenza con persone e famiglie. Le immagini provenienti dal medio ed estremo oriente e quelle dai Paesi dell’Africa ribellata ma tormentata dalla fame e dalla sete, hanno fatto il resto. Senza dimenticare le provocazioni che erano venute da documenti come la Populorum progressio e da altri documenti stimolanti.In questo crogiolo – specifico degli anni ’60 ed a cavallo del 1968 – tra i giovani dei gruppi, missionari e non, la passione per il Terzo mondo trovava ampio consenso. Gorizia è stata più volte sede di assemblee e congressi; la domanda di senso della missione prima e poi della presenza fra i popoli del mondo, oltre le cortine di ferro ma anche al di là delle alleanze, reclamava un nuova coscienza e un nuovo modo di essere, prima di tutto della fede e della Chiesa.In questo contesto, va ricordato l’annuncio di una campagna contro la lebbra o di solidarietà a favore dei paesi del Terzo mondo; al quale segue quello di una campagna a favore dei lebbrosi o di altre situazioni. Un terreno fertile e disponibile. Le generazioni dei giovani, ma anche degli adulti e poi perfino dei piccoli della scuola elementare e media – tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70 – poterono condividere tali idealità; il nome della Costa d’Avorio e, appunto, quello del lebbrosario di Manikrò diventarono parte viva del comune vocabolario. Al punto che – in collaborazione con la diocesi impegnata in questi progetti – se ne fecero carico anche i lavoratori ed i sindacati che organizzarono una raccolta di fondi come segno di solidarietà con la Chiesa diocesana che altrettanta solidarietà aveva dimostrato verso le famiglie dei lavoratori colpite da una delle tante crisi cicliche dell’economia e del lavoro del Goriziano. Scuola e ambienti diversi (oltre che la comunità ecclesiale) parlavano di impegnativi progetti comuni.Altre ragioni – di carattere pastorale, cioè tendenti a promuovere una risposta corale e prima ancora di formare coscienze capaci di guardare al mondo e a pensare alla giustizia e alla solidarietà senza confini, anche per i giovani della nostra terra, confinati da una cerniera quasi insormontabile, appunto la cortina di ferro – portarono a frutto un ulteriore seme: essere missionari non solo individualmente, ma anche come chiesa. Scoprire la vocazione missionaria della Chiesa come vocazione di tutti e di ciascuno. Unica vocazione battesimale come aveva stabilito il Concilio che, in questo modo, diventava tradizione nella vita delle persone e delle comunità cristiane. Darsi una mossa per vivere la missione, tra di noi e verso il mondo intero; essere chiesa missionaria, a cominciare dal vescovo – un sacerdote nato e cresciuto nella Chiesa goriziana – da enunciazione teorica e dottrinale diventa prima un progetto e poi un vasto impegno di collaborazione e di servizio. Una scuola informazione per tutti.Un ruolo ebbero la presenza e le parole appassionate di un testimone del tempo. Si tratta di Raoul Follerau, legato al centro a favore dei lebbrosi di Bologna; egli visita nel 1968 e nel 1969 le nostre comunità. Incontri entusiastici a Gorizia, Cervignano, Grado, Monfalcone, Ronchi e Cormons… grazie alla passione di alcuni promotori e al consenso che animava tante persone, gruppi, comunità. Coglieva, in primo luogo, il momento storico, carico di motivazioni e di impegno terzomondiale; rispondeva a sensibilità diversificate, ma lo spirito e la spinta erano forti per un servizio di giovani e di testimoni fra i popoli del Terzo Mondo. Non parliamo delle consistenti motivazioni educative che hanno reso possibile un lancio vero e proprio di tanti e diversi progetti di fede e di testimonianza.”Operazione uomini come noi” – titolo ed esempio che ancora opera a Cervignano – aveva continuità a Gorizia e nei centri della diocesi, come nei piccoli paesi e fra le comunità. “Operazioni” che conservano intatto l’entusiasmo per un’ideale che rappresentava un progetto nuovo di umanità e di chiesa. Qualche anno dopo, giustamente, si parlerà di promozione umana e di promozione della fede con uguale intensità e potenzialità coinvolte. Anche a livello ecclesiale la scelta di impegno della diocesi aveva un momento di verifica attraverso un referendum, combattuto ed appassionato.Appunto, era nato un “Progetto”. Un progetto forte e convinto, convincente; perfino qualche contestatore se ne è convinto e, con uguale passione e realismo, ha vissuto la missionarietà della Chiesa che non è mai a senso unico, prevede tante e belle varianti.Idee e progetti che hanno mosso decine e decine di persone fra sacerdoti e laici, giovani e adulti. Una prima risposta venne dal clero diocesano che se ne fece carico in prima persona. Una molteplicità di esperienze fra religiosi e religiose, collaborazioni tra diocesi e ordini religiosi, senza parlare dei gruppi di persone che hanno lavorato in Africa per dare corpo a strutture e realizzazioni. Esperienze innovative e impensate a testimonianza di una presa di coscienza sempre più matura.Una crescita di sensibilità che già aveva radici: la diocesi, da secoli, contava su missionari nel Terzo mondo e della quale è giusto ricordare l’opera e la dedizione; alle spalle dei missionari operavano centinaia di persone che hanno lavorato concretamente per dare corpo alle loro attese e richieste; migliaia di piccoli gesti di amore che hanno trovato risposta in opere prestigiose. Una fra tutte, ricordiamo con riconoscenza: le Chiese sorelle della Costa d’Avorio possono contare su vescovi autoctoni, su un buon numero di sacerdoti e un laicato responsabilizzato. Cinquanta anni di lavoro e di impegno che ha portato frutto. Qualche defezione o caduta di tensione, qualche incompiuta, non minano la positività della esperienza cinquantennale. Anzi, impegnano tutti a guardare con fiducia il futuro che è già cominciato: oggi, con minori forze, possiamo collaborare ancora accogliendo il frutto della loro esperienza e scambiando i doni ricevuti e dati. Prima di tutto a livello di presbiteri, domani, ci auguriamo anche in altre forme. Il “futuro” che vogliamo intendere può spostarsi in altre terre del mondo come la Thailandia; di più, potrà sussistere qualora saprà innestare – grazie all’accompagnamento di progetti concreti, condivisi e conosciuti – un meccanismo nuovo e rinnovato di corresponsabilità e di scambio ecclesiale. Costruire con paziente costanza tali motivazioni, renderci tutti consapevoli, inventare occasioni di rilancio della tensione con programmi che non abbiano al centro evocazioni mistiche ma un progetto fatto di concretezza e di credibilità: questo il modo convincente di continuare su una strada che ha registrato grande protagonismo ecclesiale e passione straordinaria.La memoria del passato, allora, non diventa disturbo o divagazione; tanto meno autocelebrazione e autoreferenzialità. La dolcezza del ricordo si accompagna alla gioia di un cammino nuovo, pieno di futuro ricca della convinzione di rispondere alla chiamata.
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