“Sclesis”, rime che guardano avanti
4 Luglio 2018
È stato presentato nelle scorse settimane a Terzo d’Aquileia, nella nella Corte di Palazzo Vianelli (Municipio), un volumetto di poesie in friulano di Carmelo Contin, edito da KAPPA VU.
Ho conosciuto Carmelo Contin in un “dal vivo” di scultura lignea, “Polene”, sulle rive del fiume Terzo; si respirava cielo, acqua, terra, erbe palustri, il creare uomo…Più in là, mi chiese di leggere i suoi versi, “Sclesis”. Aggiunse che erano piaciuti a Mario Matassi: mi si aprì il cuore, non per non fidarmi, risparmiò l’ansia dell’attesa. Del prof. Matassi, un esteta della parola, ovviamente legata al contenuto, qui troviamo una saporosa prefazione, condita di concinnitas (non siamo in terre col respiro della lingua di Roma?), che sarebbe armonia simmetrica, e qui, anche sintesi. Una parte di testo; poi, “slusignâ”, lucciolare, di verbi in ordine alfabetico, a definire e commentare – meditati – ciò che i testi di Carmelo Contin propongono.Nato a Farra, Carmelo ci è stato troppo poco per succhiarvi la parlata; famiglia là trasferita, per migrazioni dei nostri coloni, a inseguire la terra!Dedica alla madre, Griselda; a Farra bene, con quel quid di longobardo nel nome, ribadito – italicissimo – da una novella del Boccaccio, nel Decameron.La lingua friulana (33 le poesie) è della Bassa, dove acqua e terra si sposano nelle nebbie, e il sole, d’estate, ruggisce, come il carattere della gente, caleidoscopio di migrazioni, aliena da “romanità” unica, o artificiosa “celtomania”.Contadina è la copertina, con “uarzina”, l’aratro, tracciato dall’Autore, in dissolvenza, su metafora di terra che si coglie rossa. Sulla quarta, poesia e immagine di “spondîns”, specialisti di fossi e fossati; fatica boia in terra collosa, da incidere, per salvarla da acque sovrabbondanti e trarne pane e vino sudati.Il progetto grafico di Michela Contin, la scelta di una carta non sfasciapupille, di riposante eleganza, realizzato dalle Edizioni KAPPA VU, blandiscono i testi, pacatamente commentati con immagini tratte da artisti o parlanti fotografie.Opportuna la traduzione in italiani, intelligentemente tale da non rubare la scena al friulano protagonista.L’insieme è nel solco delle “Rimis furlanis” di Giovanni Minut, portato al vertice da Renato Jacumin.La prima poesia – “Puarta viarta” – è replica della dedica alla madre, accogliente con tutti, anche con il parroco Pietro Cocolin in anni difficili (il nome non compare, ma è lui a iniziare identità negli incontri, al di sopra delle rispettive gerarchie, nella Bassa “rossa”).La lingua di Contin non concede alla retorica; non è scabra per principio, lo è, per scelta, dove giova, così com’è dolce, quando serve.Per le idee, si coglie dove batte il cuore: poveri e diseredati, giustizia, libertà, violenza, lotta, riscatto; non si pietrifica nel ieri, che virava a propaganda; guarda avanti e non si perde in facile nostalgia di localismo: nelle “piccole cose”, quasi pascoliane, come nei massimi sistemi. Difatti, la raccolta finisce in un “Giulio”, che tutti sanno chi è: con nulla di lacrimevole, e del “tanto per esserci”, ma col vedere il giovane vivo, nella consapevolezza di chi vuol veramente vivere insieme.”Tiara”, anche lei, mira ai grandi temi esistenziali. Evoluzionismo qui; aggiungiamoci Theillard de Chardin, e, insieme, potremo, come dice lui, medicarla e volerle bene “par fâla/ aciamò/ zirâ/ par viodi /al soreli/ e li gnots/ di luna plena”.La figura femminile non compare molto, in maniera esplicita: si avvertono elementi di maternità e femminilità, senza forzature: “tiara, aga, gnot, luna, buera, polenta, sapa, bicicleta, grama, fals…”, per salire alla materna Fara (l’origine), a la Tôr, materna di ghiaie e sabbie, lavoro ai ciaradôrs e permette ai muradôrs di creare; e ancora su a la gardilina muta, che rende vedul il cielo per la mancanza del suo canto; e a salire ancora col desiderio quando sgurlavin li cotulis; nel valzer, il passaggio all’odôr di fantata, per giungere a una vita nuova, che si materializza, nell’andare del tempo, alla Cadorina o Carnica, che venivano a vendere prodotti di legno per la casa, troncate nella vita dalla tragedia del Vaiont.Il culmine è la Madre, e c’è il padre, ironico nome di Guerino, per uno che si fa 4 anni di guerra, ma salva “la scussa”.Ci sono i fratelli: Giovanni, morto in Lager nazista; Oreste, dalla “sapa lustra” e non occorre spiegare perché.Qua e là, ironia in un brivido – non sguaiata – come in “Ostaria”, affiorante perfino quando si tratta di tragedia..A proposito, c’è tutto il ’900 qui, con la “grande” guerra, sul Carso e nelle nostre terre; con la II, più direttamente mondiale, preparata dalle ingiustizie inveterate del I; vissuta nella tragedia del durante (si pensi ai versi di “Copâts”), carica di speranze e, nello stesso tempo, con strascichi in un dopo, non di rado, rancoroso.Dappertutto si spalanca uno scrivere e descrivere impressionistico, con rimandi simbolici di lessico incisivo, vivo, penetrante, pieno di “sclesis” di colore, che avvolge forma e contenuto.Parole, spesso rare, preziose come perle, come rugiada del mattino, sibilare della “buera”, passeri che “barbotin”; “crostis dal cjalin”; il dormire “da contis”…
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