E il cambiamento? Dov’è?

Il voto con cui gli italiani, ormai quasi otto mesi fa, hanno premiato le due forze che costituiscono l’attuale maggioranza di governo, ha manifestato con forza e complessivamente questo bisogno. Lo ha manifestato al di là di un giudizio specifico su ciascuno dei due partiti, che a onor di cronaca si sono presentati agli elettori su fronti contrapposti e in competizione tra loro (è utile ricordarlo come antidoto a un’interpretazione messianica del mandato del “popolo”). E anche al di là dei contenuti effettivi del cambiamento richiesto, in cui si sono confusamente mescolate istanze decisamente positive – in particolare circa il ricambio della classe dirigente – e altre indotte dal risentimento sociale e dalle paure collettive.Quando, quasi cinque mesi fa, le forze premiate dal voto hanno faticosamente espresso il nuovo esecutivo, lo hanno comprensibilmente ribattezzato “governo del cambiamento”. Si può storcere il naso davanti all’elevato tasso di retorica di queste autodefinizioni (anche se altri in passato non sono stati da meno), eppure si tratta di un nome che indica una direzione di percorso in sintonia con i sentimenti prevalenti tra gli elettori. Ma dov’è finita questa spinta al cambiamento a cui, almeno stando ai sondaggi, la maggioranza degli italiani continua a dare credito? Per mesi, durante e dopo la formazione del governo, le forze di maggioranza hanno mostrato un’attenzione meticolosa per nomine e incarichi di potere, da affidare a fedelissimi, nella peggiore delle tradizioni politiche nostrane. Provocando gravi ritardi anche in situazioni di estrema urgenza quando non si riuscivano a comporre gli interessi del M5S con quelli della Lega. Ancor più macroscopico è quanto avvenuto con la manovra economica. Quando si è trattato di reperire le risorse necessarie non si è trovato di meglio che aumentare il già abnorme debito pubblico e approvare (in due puntate) l’ennesimo condono fiscale. Anche il più rilevante degli interventi strutturali, quello sulle pensioni, è dichiaratamente un ritorno al passato. Persino l’ingente stanziamento per il cosiddetto reddito di cittadinanza (che se usato per combattere in modo mirato la povertà potrebbe portare a risultati storici, come ha rilevato il recente rapporto della Caritas italiana) rischia di diventare una colossale operazione assistenzialistica, di quelle che il nostro Mezzogiorno purtroppo ben conosce.

Di cambiamento vero sembra che si possa parlare, invece, nell’approccio al fenomeno migratorio, nei rapporti internazionali e nella visione della democrazia. Ma è un cambiamento dai risvolti inquietanti. Sulle migrazioni, gli effetti più negativi si registrano per ora soprattutto a livello culturale, con lo sdoganamento di pulsioni razziste che nella storia della Repubblica non hanno precedenti. Sulle alleanze internazionali, allo scontro frontale con l’Europa si associa una preoccupante fascinazione per Putin e per le “democrazie illiberali” dell’Est. Tale fascinazione si incrocia con discorsi e progetti per il nostro futuro costituzionale che in prospettiva si collocano fuori dall’alveo della democrazia rappresentativa e della separazione tra i poteri, come dimostra sin d’ora l’insofferenza verso tutte le istituzioni di garanzia (compreso il Presidente della Repubblica e fino alla libera stampa) che in questa misura è inedita nella vicenda politica recente del Paese.A fronte di questo quadro spicca ancora di più la sostanziale incapacità delle opposizioni a svolgere il proprio ruolo. Non basta additare le vistose contraddizioni di chi è al governo, né opporre ai problemi del presente i risultati (modesti) delle passate gestioni, evitando il passaggio ineludibile di una radicale autocritica, né vagheggiare la riproposizione di schemi superati. Per riconquistare il consenso degli italiani è necessario proporre un progetto di cambiamento credibile e alternativo rispetto a quello dei vincitori di oggi. Se si è capaci di farlo, ovviamente.