L’arte diviene strumento per la riparazione

Con la mostra fotografica “Lo spazio della pena”, allestita presso il Kinemax di Gorizia, si è concluso l’evento “Se io fossi Caino”, festival di Teatro e Arte del carcere di Gorizia, giunto alla seconda edizione, incentrato quest’anno sul tema dell’”Arte per la riparazione”. Sviluppato in quattro giornate, il festival ha toccato quattro luoghi diversi, quasi a voler coinvolgere diverse realtà su un tema scomodo, riservato agli addetti ai lavori e, dai più, percepito come estraneo o attuale solamente sull’onda di emozioni forti suscitate da notizie di cronaca raccapriccianti. In tali occasioni la “normalità” si esprime con frasi del tipo “Chiuderli dentro e buttar via la chiave”; oppure, quando si affrontano i problemi delle e nelle carceri: “Cosa pretendono questi, di essere in villeggiatura?”. E i responsabili della Cosa pubblica cavalcano spesso l’onda di questo comune sentire ricercando il consenso degli elettori con proposte di inasprimento delle pene, come fosse questo la panacea di tutti i mali e l’unico mezzo di prevenzione, la paura (!). In questo clima di “normalità”, l’immersione durante i quattro giorni del festival “Se io fossi Caino” nella realtà del carcere vista da angolature diverse, l’ascolto di esperienze di tutt’altro tenore rispetto al sentire dominante, proposte da chi su questo fronte è impegnato, ha offerto il respiro di un vento profetico. Certo non è popolare parlare troppo del carcere, “con tutti i problemi che vivono le persone “normali” nel nostro Paese”, come peraltro non è popolare affrontare il dramma epocale degli immigrati, “con tutti i problemi che devono affrontare già “gli italiani””. È molto più semplice e immediato ottenere il consenso concentrando l’attenzione contro qualcuno, contro il “diverso”, sia esso il detenuto, il rifugiato… E così non si affronta realmente nessun problema, con l’alibi che prima c’è sempre qualcosa o qualcun altro, che dovrebbe avere la precedenza, a cui pensare… Per fortuna c’è chi si pone con serietà, competenza, professionalità e umanità davanti a queste problematiche, con uno sguardo aperto e lungimirante. Purtroppo poco se ne parla, perché non fa notizia, non ripaga, va controcorrente…Quattro i luoghi coinvolti nel festival: la Sala conferenze della Fondazione Ca.Ri.Go., il carcere di Gorizia, la Sala Bergamas a Gradisca, il Kinemax a Gorizia. Del Convegno del primo giorno, sul tema della giustizia riparativa, è già stato ampiamente riferito su Voce Isontina la settimana scorsa.

Lo spettacolo in carcere a GoriziaIl secondo giorno di “Se io fossi Caino” ci fa entrare all’interno del carcere di Gorizia. Al saluto del Direttore Alberto Quagliotto segue la presentazione dello spettacolo da parte di Elisa Menon, fondatrice e direttrice di Fierascena, Compagnia di Teatro Sociale. Anzi la presentazione riguarda tutto il progetto che ha coinvolto, quest’anno, i detenuti del carcere di Trieste e che va ben oltre l’allestimento dello spettacolo, richiedendo ai partecipanti uno sforzo di presenza, di partecipazione, di riflessione, un impegno  nella fatica di esporsi, di mettersi in gioco, un coinvolgimento nella ricerca, nella preparazione… La performance si propone come la punta dell’iceberg di questo lavoro protrattosi per alcuni mesi in carcere, la conclusione, l’opportunità di condividere la fatica con altri, di mostrarsi ad altri, di coinvolgere; l’occasione per abbattere un muro, per guardarsi negli occhi, per incontrarsi. E lo spettacolo “SOMA – la parte corporea dell’uomo” riesce davvero in tutto questo. L’attesa iniziale, la curiosità per l’evento inusuale lasciano presto il posto al coinvolgimento. Nel susseguirsi delle scene gli attori si trasformano, vanno via via impadronendosi della scena, conquistano il pubblico, interagiscono con le persone sedute di fronte a loro, si inseriscono tra il pubblico, i volti si distendono, si aprono, mostrano di sentirsi accolti… Il loro primo ingresso nel cortile-palcoscenico, schierati contro l’alto muro grigio ricamato di finestre con grate e reti, evocava le immagini dei confronti all’americana visti in tanti film, individui sospetti e anonimi. Ma una spolverata di trucco sparsa con abbondanza ed entusiasmo dalla regista sui loro volti regala nuova vita a questi sguardi spenti e dopo un po’ anche il pubblico si sente trasportare oltre i muri della prigione, lo scenario grigio ricamato di sbarre evapora, sfuma. Sei attratto a seguire i volti e i gesti dei protagonisti, sei coinvolto dai loro sguardi, dai loro sorrisi, dai semplici oggetti di scena di uso quotidiano che prendono vita. Ti trascina la complicità con cui lavorano, la precisione dei loro movimenti, la coreografia misurata, la delicatezza dei loro gesti. Sei attento a cogliere il peso di quelle poche frasi che di tanto in tanto rompono il silenzio e ti entrano nell’animo: “Il dolore degli altri non mi sta in mano, e neppure in gola, più che altro sta nel petto, nella sua memoria.”… “Vivo di ciò che non ho, a volte di ciò che non è”… Davanti a qualche quadro non è possibile trattenere il groppo in gola, perché ognuno si sente chiamato in causa. Suggestiva la scena di Pinocchio nel paese dei balocchi; gli asini, tra il pubblico, animali da “soma”, col rimando al titolo dello spettacolo “SOMA”, con tutti i significati che la parola porta con sé…  E alla fine un applauso liberatorio, lungo, prolungatissimo, caloroso. E loro, Samir, Remus, Elvis, Marco, Samuele, Miriam, Stefania ed Elisa si divertono a regalarci ancora qualche posa, qualche simpatico quadretto. I loro occhi riflettono una luce particolare. Hanno lavorato, faticato e ora si rendono conto di aver abbattuto un muro. Colgono la sincerità e il calore di quegli applausi che premiano il loro lavoro, la loro ricerca, il coraggio di esporsi, di mettersi in gioco. Pochi minuti ancora nella “bolla di libertà”, perché il furgone li attende per riportarli nel carcere di Trieste.Brava Elisa, brave Miriam, Stefania e Giulia. Complimenti Fierascena. L’arte, la bellezza ancora una volta hanno compiuto un miracolo.

Il teatro di burattini“Beati i perseguitati a causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli” è stato il tema del teatro di burattini proposto il terzo giorno a Gradisca da Gigio Brunello, autore di teatro, attore e burattinaio. Un improbabile dialogo tra Gesù e Pinocchio, – entrambi figli di falegname, entrambi dietro le sbarre, entrambi non vedono l’ora di uscire, – sul tema della libertà e della prigionia. Raccontano il camminare liberi, la brutalità dell’improvvisa, inspiegabile reclusione. Non si arrendono neppure quando i chiavistelli stridono e una voce chiama verso un destino prevedibilmente tragico. Una riflessione struggente, la cui eco ritorna ancora alla mente e al cuore anche dopo che le luci si sono spente. Allo spettacolo è seguito un interessante dialogo tra don Paolo Zuttion e il burattinaio Gigio.

Il percorso fotograficoE infine, il quarto giorno del festival, Elisa, Miriam e Stefania hanno accompagnato i visitatori nel percorso segnato dalle fotografie scattate da Marco Fabris nella Casa circondariale di Trieste, per aiutarli a cogliere il senso di quegli scatti illustranti luoghi e momenti della quotidianità alienante di un detenuto: dalle sbarre di un cancello, all’angolo del caffè, dalla stanza della lavatrice, al passaggio del piatto attraverso le sbarre, dalla cucina all’angolo doccia… Luoghi contrassegnati dall’assenza di bellezza. E lungo il percorso un interminabile e monotono elenco di parole, di norme, di passi che scandiscono meticolosamente le ore delle interminabili giornate vissute in prigione.La mostra si proponeva come azione di sensibilizzazione sulla necessità che un detenuto attraversa di adattarsi alla vita in carcere e, di conseguenza, di riadattarsi alla vita fuori di essa alla fine della reclusione.Sembra, e ce lo auguriamo, che il festival proporrà altre edizione, a scadenza biennale. Abbiamo tutti bisogno di bellezza e di profezia.