Marco d’Aviano, apostolo della Quaresima

Apostolo della Quaresima! Questo è il tempo “forte” in cui il Beato Marco d’Aviano mai trascurò di annunciare la verità dell’Amore intramontabile di Dio verso l’umanità vagabonda ed errante, cioè lontana da Dio e dalla sua legge: quei suoi quaresimali, nemmeno uno omesso nei ventitré anni di vita pubblica! quella sua predicazione del dolore perfetto dei peccati, cioè fatto senza paura, incontro al Padre che non ricorda più il tuo peccato se lo riconosci umilmente e sinceramente e lo fai “per amor di Dio”!Avendo abbracciato la regola severa dei Cappuccini, egli anche impegnò se stesso, con abnegazione eroica, nella preghiera personale (quelle sue veglie notturne! quelle messe “angeliche”!), nella mortificazione volontaria (quel suo cilicio! quei digiuni!) e nella carità. La sua quaresima era protratta, si può dire, tutto l’anno, e tale va considerata pure l’obbligata attività presso le corti, in primis quella dell’imperatore d’Austria Leopoldo I, cui fu inviato dall’obbedienza ecclesiale con sincero desiderio, che arrivò spesso al logoramento fisico, di promuovere concordia, unione e pace in tempi di eccezionali difficoltà.Esse furono dettate pure da carestie e pestilenze.

I giorni della pesteRientrando da zone sospette d’Europa, anche Padre Marco dovette sottoporsi a quarantene.Molto seria si presentò la situazione nel 1682 allorché il cappuccino tornava in estate dalla prima permanenza a Vienna e sulla sua via, in Stiria e Carinzia, serpeggiava almeno dal maggio la peste (Graz era infestata). I passi di confine con la contea di Gorizia, dove il beato avrebbe dovuto transitare ed era anzi atteso, erano stati chiusi e non se ne parlava di chiedere deroghe, neppure in favore dell’illustre camminatore consigliere dell’imperatore che fece a tempo ad arrivare, via Tirolo, al convento di Padova dove si mise a letto dalla metà agosto e fino a tutto ottobre. Dopo miglioramenti e ricadute, confidò: “Posso dire d’esser passato dalla morte alla vita, essendo stato il male gravatissimo e lungo” (al conte Francesco Ulderico Della Torre, 23 ottobre 1682).

Il suo contributo a GoriziaIn quei momenti non mancò comunque di impetrare da Dio la salute del popolo. Specialmente di Gorizia, coinvolta nell’epidemia dopo che tal Urbano Velicogna, un mercante di cavalli reduce da un viaggio in Croazia, “positivo” al virus, sostando a Sampasso aveva infettato il villaggio dove il 24 giugno si erano constatati 19 morti, 20 contagiati, 14 ricoverati nel lazzaretto.A quel punto i “Deputati Provvisori alla Sanità” con il luogotenente della contea Lodovico Vincenzo Coronini avevano preso le prime misure, come la chiusura della scuola e la richiesta al citato conte Della Torre, capitano di Gradisca, ambasciatore cesareo a Venezia e grandissimo devoto di Padre Marco, di inviare medici e becchini con medicinali che non subito il popolo aveva però saputo pacificamente e unanimemente accogliere, non credendo grave la situazione solo perché la città risultava ancora immune. Lo scoppio era in verità alle porte, preceduto dalla biasimevole fuga dei nobili: il 9 luglio la peste era penetrata nel borgo di Braida Vaccana. Mentre i viveri erano ormai scarsi (mancavano del tutto grano, olio, sale, carne) e l’erario pubblico esaurito (anche per pagare i sanitari chiamati da Venezia e fatti entrare in città dopo mesi di indecisioni, contrordini, timori e tumulti perché essi erano stati a Sampasso a contatto degli infetti, mentre un tardivo sussidio di 500 fiorini era stato concesso a malapena dall’imperatore), essa aveva in breve invaso pure Prevacina, Ranziano e infieriva ora più violenta a Salcano, registrando un numero di vittime in aumento ogni giorno – i morti erano “sepolti ne’ contigui horti con sopra porvi la calce viva” – tanto che le autorità avevano costruito un nuovo lazzaretto a Sant’Andrea, ben presto riempitosi.Diminuì d’intensità verso la fine di agosto proprio quando entrò in azione Padre Marco: a lui si erano infatti rivolti, fiduciosi nella sua influenza benefica, i disperati deputati della città, chiedendogli l’ormai famosa in Europa taumaturgica benedizione.

Gli scritti“Con le vis[c]ere del core”, Padre Marco scrisse allora da Padova – era il 28 agosto 1682 – la sua “carità et affetto … a cotesta città nella quale ho apreso le lettere humane et il timore di Dio dalli esemplarissimi e devotissimi padri della Compagnia di Giesù” e promise ai goriziani di “raccomandarli a Dio nelle mie debolissime orationi”, esortandoli a manifestare “veri segni di penitenza” “nella vera confidenza e fiducia nella somma bontà di Dio che non vult mortem peccatoris, sed ut magis convertatur et vivat” [= non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva; cfr Ezechiele 33,11]; disse infine che avrebbe impartito la benedizione l’8 settembre, festa della Natività di Maria, alle ore 11, alla condizione “di produr un atto di contrittione con proponimento di confesarsi e communicarsi quanto prima”.Lui si sarebbe unito in distanza alla preghiera collettiva anche con l’“applicar il detto giorno il sacrifitio [la messa] per loro solievo”.La benedizione “fu con gran divotione ace[t]tata” dalla popolazione: “In tutti i luoghi dove si celebrava al di fuori, legevansi le messe e tutti l’ascoltavano per maggior divotione”.La citazione è dalla Relattione del contaggio successo in Goritia, et sua origine l’anno 1682, con le figure delle cose più notabili, nomi et età di tutti i morti in città et lazzaretti del prete Giovanni Maria Marussig: un testo che l’autore arricchì di disegni che sono quasi foto di quel frangente triste, ma pregno di speranza, che si impreziosì di una processione verso Monte Santo a indire la quale Padre Marco nella sua lettera aveva esortato i pubblici poteri, “anco [con] qualche voto verso la gran Madre delle Misericordie”: così “ne proveran[n]o anco gl’effetti della som[m]a bontà di Dio”, aveva concluso il frate. Gli schizzi del Marussig sono tuttora lì a confermare il fervore spirituale che aveva preso Gorizia, le cui autorità si premurarono di ringraziare subito per iscritto il padre (lettera 4 settembre), mentre quelle della fortezza di Gradisca pure gli avevano scritto per “haver gratia da Dio di preservarsi dal male pestilentiale così vicino inoltrato, dal quale sin’hora [il luogo] si è conservato libero et illeso” (lettera 19 agosto 1682).Male che a Gorizia si estinse con il dicembre seguente: questo capitolo della sua storia (la precedente epidemia risaliva al 1623), ben documentato da un saggio di Lucilla Cicuta su Studi Goriziani nel lontano 1926, ebbe una sorta di ufficiale conclusione con un’ulteriore grande manifestazione di fede indetta il 2 febbraio 1683 in onore questa volta di San Francesco Saverio, che, arrivato nell’isola di Schangchuan ormai alle porte della Cina [è il patrono delle missioni d’Oriente], era stato preso dalla febbre, morendo quindi di polmonite oltre un secolo avanti.

L’attualità di padre MarcoPadre Marco era nato nel 1631 – e battezzato Carlo a onore del celebre San Carlo Borromeo che tanto si era affaticato a Milano a favore degli appestati – al cessare dell’epidemia di manzoniana memoria: la stessa che, come si sa, aveva visto Venezia implorare l’aiuto di Dio e della Madonna con l’emissione anche di un voto pubblico per assolvere il quale la Serenissima aveva eretto, non ancora cessato del tutto il flagello, la famosa Basilica della Salute opera del Longhena, come aveva fatto oltre cinquant’anni prima con il Tempio del Redentore alla Giudecca, opera del Palladio, assegnato alla cura dei Frati Cappuccini e ove visse Padre Marco.Memori della fiducia in lui riposta dai nostri antenati goriziani, al beato cappuccino possiamo affidare perciò le sorti del particolare momento che copre per intero questa Quaresima e non ci è dato di sapere quanto durerà e coinvolgerà il nostro territorio: un tempo nel quale darci alla preghiera, nonostante il blackout della fede comunitariamente manifestata, con quel maggiore slancio interiore verso Dio insegnatoci dalle generazioni passate.Dio è il solo che può tutto per nostro amore: proprio Padre Marco esortava: “Riconciliatevi con Dio e poi domandate tutto alla bontà del Signore!”.È un buon consiglio che non ci viene dalle martellanti trasmissioni televisive sul coronavirus (in esse non si fa menzione del dato della fede in Dio, invocato nei secoli e da invocare), ma da chi ha creduto e fatto credere che è il Signore a liberare “a peste, fame et bello”.