Una medaglietta darà un’età alle sepolture del castello?

Un ritrovamento che ha destato l’interesse non solo degli studiosi ma anche dell’intera opinione pubblica, seguito – fra l’altro – solo di poche settimane al ritrovamento di un edificio a forma ottagonale nei pressi del duomo cittadino.Collegati inizialmente ad avvenimenti del primo o del secondo conflitto mondiale nel secolo scorso, per i reperti del castello – dopo ulteriori studi ed approfondimenti ed in attesa dell’esame al Carbonio 14 – è stata proposta una datazione più antica, risalente al Settecento.Ne abbiamo parlato con lo storico don Alessio Stasi, Notaio della Curia arcivescovile e docente di Storia della Chiesa nello Studio Teologico Interdiocesano di Gorizia, Trieste, Udine.

Don Alessio, i recenti ritrovamenti sotto le mura del Castello giungono un po’ a sorpresa. Che idea se ne è fatto?È stata per tutti una sorpresa. Si erano appena conclusi gli scavi archeologici in Corte Sant’Ilario, da cui sono emerse le fondamenta di un ossario ottagonale, a quanto pare cinquecentesco, e soprattutto frammenti di ceramica risalenti all’Età del Bronzo. Un ritrovamento di eccezionale importanza per Gorizia, passato in sordina a causa dell’emergenza sanitaria, ma che deve essere adeguatamente valorizzato. Ecco però affiorare nuovi scheletri dal sottosuolo, questa volta nel cantiere da poco ripreso per la costruzione dell’impianto di risalita al Castello. Mentre nell’area adiacente al Duomo erano del tutto prevedibili resti di antichi edifici e sepolture, sulle pendici del Castello, sotto uno dei bastioni, ci si poteva aspettare al massimo qualche coccio, moneta o arma, ma non certo una trentina – al momento – di scheletri.In un primo momento si è diffusa l’ipotesi di sepolture improvvisate in seguito ad eventi bellici del Novecento. Immediatamente, man mano che continuavano ad affiorare gli scheletri, si è pensato a persone trucidate in uno dei tanti eccidi della Seconda guerra mondiale. Una tesi che ha suscitato subito un’infinità di supposizioni e collegamenti, spesso contrapposti tra di loro. Inizialmente, prima di visitare il sito e visionare i reperti, ho accolto questa tesi, sebbene con molte riserve.

Quali riserve?Nelle nostre terre, martoriate dai tragici eventi del Novecento e da ferite ancora aperte, la pista dei massacri a sfondo politico è sempre stata la prima a destare la curiosità, spesso animosa, dell’opinione pubblica. D’altra parte è normale: l’interesse collettivo è in genere stimolato da eventi più recenti, da ciò che si ricorda a memoria d’uomo o di cui si è sentito parlare in famiglia. Soprattutto quando sopravvivono strascichi di divisioni etniche e politiche o l’amaro ricordo di torti subiti.È doveroso ricordare, ma va pure osservato che continuare a riaprire ferite non ancora del tutto rimarginate fa sempre male e spesso non aiuta a costruire il futuro. La storia del Novecento, in particolare quella della Seconda guerra mondiale, è molto complessa e continua a suscitare polemiche e interrogativi. D’altra parte è storia recente: è quasi impossibile che un figlio racconti in modo distaccato e non emotivo le vicende del padre. Non per questo bisogna tacere, anzi. Tutti hanno il diritto di piangere i propri morti. Ognuno può esprimersi, tutto ciò arricchirà le fonti, ma bisogna stare molto attenti a non pretendere di avere in mano la verità assoluta. Spesso, soprattutto in ambito mediatico, si parla di “storia oggettiva e imparziale”. Qui andrei controcorrente, dicendo in modo chiaro che una storia oggettiva e imparziale non può esistere. Persino la scelta di un argomento, di una fonte, di una chiave di lettura è già di per sé soggettiva e parziale.Certo, è necessario sforzarsi di essere equilibrati e distanziati dall’argomento trattato, ma infine risulta un ideale irraggiungibile, perché ogni storia individuale e collettiva entra sempre a far parte di un vissuto intimamente personale e pertanto soggettivo. L’antico termine greco “historìa” non significa altro che “ricerca” o “indagine”, non certo verità assoluta. L’esito di ogni ricerca dipende sempre dagli strumenti a disposizione e dalle intenzioni di chi indaga. La storia è sempre una proposta di lettura degli eventi passati.

Lei collabora come storico con gli enti coinvolti in questi ritrovamenti, ossia il Comune, la Soprintendenza per i Beni culturali e l’équipe di archeologi al lavoro. Al momento, qual’è il Suo parere su quanto ritrovato?Sin dal primo momento le ossa che affioravano mi erano parse più antiche del Novecento. Il problema è la scarsezza di reperti datanti che solitamente si trovano accanto ai resti delle persone inumate. Un primo indizio erano i numerosi chiodi ritrovati nel sito, precisamente chiodi di bare non conservate. Ciò induce a pensare che almeno una parte dei cadaveri sia stata inumata regolarmente, in casse da morto, escludendo l’ipotesi di una sepoltura frettolosa o segreta, ad esempio in seguito a un massacro. Non sono presenti resti di stoffa o indumenti, probabilmente del tutto consunti dalla terra, il che mi fa pensare a sepolture meno recenti. Sono stati ritrovati lo spillo di un sudario, un orecchino e alcuni bottoni, che mi sembrano di epoca preindustriale, del Settecento o dell’Ottocento. Ma su questi reperti si esprimerà un esperto già interpellato. Ho invece cercato di datare una medaglietta devozionale, che oltre agli scheletri stessi mi pare al momento il reperto più interessante ed eloquente rinvenuto nella necropoli.

La medaglietta era appartenuta a uno degli inumati?È stata ritrovata in stretta prossimità di uno scheletro di persona adulta con accanto i resti di un neonato. Se sia stata una madre con il suo bambino, lo rivelerà l’esame antropometrico. La medaglietta però è molto interessante, anche se potrebbe naturalmente risalire anche a parecchio tempo prima rispetto alla data di sepoltura della persona che la indossava. Si tratta di una medaglietta devozionale fusa in bronzo o in un’altra lega con lo stagno, la cui foggia, con quanto resta dell’attacco, rimanda al tardo Seicento o piuttosto al Settecento inoltrato. Un tempo era prassi diffusa seppellire i morti con le medagliette devozionali che avevano portato in vita oppure riporgliene delle altre nella bara. La lettura della medaglietta è stata difficile, perché è molto ossidata, consunta e incrostata. La Soprintendenza ne ha disposto la pulitura. Ho comunque individuato su una faccia l’immagine di San Luigi Gonzaga, sull’altra quella di San Francesco Saverio (che in un primo momento mi era parso Sant’Ignazio). I pochi caratteri leggibili delle scritte che accompagnano le immagini dei due santi confermano questa lettura. La scritta più chiara, ripetuta su entrambi i lati, è: “S.I.” e “SOC. IES.”, ovvero “Societatis Iesu”, cioè “della Compagnia di Gesù”.Dunque una medaglia devozionale di ambito gesuitico. San Francesco Saverio è riconoscibile dall’abito gesuitico e dal giglio che stringe tra le mani conserte al petto, San Luigi Gonzaga ugualmente dall’abito, dal crocifisso che regge in mano e dalla corona di marchese alla quale rinunciò, deposta a lato.

Perché proprio San Francesco Saverio e San Luigi Gonzaga?Sono due santi gesuitici molto venerati a Gorizia in Età barocca. I gesuiti, arrivati a Gorizia nel 1615, furono i grandi protagonisti della Riforma cattolica, segnando un’epoca particolarmente felice di espansione culturale, economica e sociale della città e del suo vasto territorio. L’infaticabile azione pastorale e la catechesi dei gesuiti erano naturalmente imperniate sul carisma particolare della Compagnia di Gesù, promuovendo il culto dei propri santi. Tra questi, i due santi che compaiono sulle due facce della medaglietta. San Francesco Saverio, l’Apostolo delle Indie, che in terra di missione si era prodigato anche nella cura degli ammalati, divenne addirittura compatrono ufficiale, affiancando San Giuseppe, della Contea di Gorizia, in seguito alla terribile epidemia di peste che ne decimò la popolazione nel 1682. A questo periodo risale una grande tela nella cappella laterale di San Francesco Saverio della chiesa di Sant’Ignazio, che raffigura il santo mentre intercede per la città di Gorizia ai suoi piedi, con in primo piano la scena straziante di un bambino che piange la madre morta, tra altri cadaveri di appestati. Anche San Luigi Gonzaga veniva invocato contro la peste, poiché si era contagiato dopo essersi caricato sulle spalle un appestato per portarlo all’ospizio, morendo a soli ventitré anni. Le due statue di San Francesco Saverio e San Luigi Gonzaga appaiono nella parte sinistra (a cornu Evangelii) del monumentale altar maggiore della chiesa di Sant’Ignazio, non a caso accostate, proprio come nella medaglietta. Dall’altra parte del tabernacolo e dell’edicola centrale (a cornu Epistolae), sono posizionate le due statue di San Francesco Borgia e San Stanislao Kostka. L’altare è stato eseguito nel 1716 dello scultore veneziano Paquale Lazzarini, che si stabilì a Gorizia sposando Anna Pacassi, zia del celebre architetto Nicolò. Una curiosità: i due santi più giovani che compaiono sull’altare, San Stanislao Kostka e San Luigi Gonzaga, non erano ancora santi quando fu eretto l’altare, ma ancora beati. Furono canonizzati entrambi nel 1726. Questo, ma non necessariamente, potrebbe essere un terminus post quem per la datazione della medaglietta rinvenuta negli scavi al Castello. Ma non è detto, poiché Luigi Gonzaga era già molto venerato come beato anche prima del 1726. La foggia della medaglia rimanda ad ogni modo al Settecento o al massimo, a ritroso, agli ultimi decenni del Seicento. Nell’ampio panorama di medagliette devozionali del Friuli veneto dedicate ai due santi non se ne trova una simile. Ciò fa pensare alla possibilità che sia di fattura goriziana, su commissione dei gesuiti. Nel Settecento operavano in città e nel contado alcuni fonditori di bronzo, come Bernardino Franchi, e numerosi peltrai, che fabbricavano anche medaglie votive. L’ultimo terminus ante quem per la datazione della  medaglietta è invece sicuramente il 1773, quando fu sciolta la Compagnia di Gesù. C’è da ribadire che la persona sepolta con questa medaglietta può essere morta anche parecchio tempo dopo il periodo indicativamente proposto per la datazione del reperto, 1726-1773. La datazione al Settecento o alla fine del Seicento è però significativa per il misterioso cimitero ritrovato, così com’è suggestiva la presenza di due santi gesuiti invocati contro le malattie contagiose e incurabili.

Quindi le sepolture potrebbero risalire a un’epidemia?È quello che ho pensato immediatamente, vista anche l’ubicazione che dalle mappe, almeno al momento, non risulta essere mai stata un cimitero. Forse un cimitero d’emergenza, come spesso capitò a Gorizia, ad esempio durante la grande peste del 1682. Ma c’è un aspetto che mi lascia perplesso su quest’ipotesi. Le sepolture dei morti di malattie contagiose venivano sempre cosparse di calce. Nelle tombe sinora rinvenute non c’è però la minima traccia di calce, che pure si conserva sempre nella terra. Qualora fossero morti di malattie contagiose, potrebbe tuttavia esserci anche un’altra casualità. Cito un celebre epidemiologo veneto, Angelo Antonio Frari, che nel 1840 scrisse: “Scavate le fosse profonde di almeno quattro piedi, gettati in esse i cadaveri, dovevano questi venir coperti con calce viva, e mancando questa, con cenere. Per lo più però mancava l’una e l’altra, e i cadaveri venivano interrati superficialmente, in specialità nelle località isolate e lontane”. Che fosse questo il caso del piccolo cimitero sotto il Castello? La medaglietta però sembra ormai settecentesca e l’ultima epidemia di peste a Gorizia fu quella del 1682, dopodiché si riscontrano soltanto epidemie di peste bovina, come narra lo storico Carlo Morelli. Esistono però anche altre malattie contagiose nel corso del Settecento e molte altre nell’Ottocento. Ci sono anche altre possibilità. Potrebbero essere persone morte in uno scontro armato che riguardò il Castello. Oppure ancora i militari e le loro donne regolarmente di stanza nella fortezza militare. Proprio sopra il sito, in prossimità del bastione che lo sovrasta, è segnata in alcune mappe del Settecento una chiesetta, che serviva proprio agli abitanti della caserma, mentre il resto degli abitanti del borgo si serviva della chiesetta di Santo Spirito. La chiesetta sopra il bastione ebbe però breve durata: non esisteva ancora nel Seicento e scomparve a fine Settecento.  È segnata inconfondibilmente con una croce in una mappa del 1756, sebbene le coeve visite pastorali degli arcivescovi non ne facciano menzione. Al di là della chiesetta, forse i morti venivano calati dalle mura e sepolti ai piedi del bastione. Ma perché le mappe coeve, pur nella loro precisione, non segnano in quel luogo un cimitero, come in tutti gli altri casi?

Ci sono altre possibilità?Nello scavo stratigrafico danno molto da pensare alcune sepolture sovrapposte (di cui una addirittura tagliata in due per una nuova inumazione), che fanno intuire non un cimitero d’emergenza, in cui gli scheletri sarebbero tutti disposti più o meno sullo stesso piano, ma un cimitero usato più volte in periodi diversi. Può darsi sia semplicemente il luogo dove i goriziani, quando talvolta veniva a mancare lo spazio negli antichi cimiteri della città – quelli del Duomo, di San Rocco, di San Giovanni e di Sant’Antonio Nuovo – seppellivano i propri morti. Ho pensato anche alla possibilità di sepolture di giustiziati, che solitamente venivano inumati in terra non consacrata, in genere in prossimità del patibolo. Anche qui c’è però qualcosa che non torna. Che cosa ci farebbe in questo caso lo scheletro di un neonato? Un’attenta analisi antropometrica degli scheletri potrebbe fornire altre piste di ricerca.

E la prova del Carbonio 14?Solitamente la prova del Carbonio 14 è considerata il responso definitivo per la datazione di reperti organici. In questo caso è già stata disposta dal Comune e dalla Soprintendenza per alcuni campioni di reperti ossei. Ci vorrà qualche mese per avere il responso. Va però osservato che la prova del radiocarbonio, soprattutto per i reperti risalenti agli ultimi secoli, subisce talvolta forti oscillazioni temporali e non è sempre attendibile, a causa di agenti chimici esterni che agiscono sull’isotopo da analizzare. Confido intanto nel rinvenimento di nuovi reperti datanti e in nuovi dati che potranno emergere dalle ricerche d’archivio. Purtroppo, a causa dell’attuale emergenza sanitaria, diversi archivi pubblici sono ancora chiusi, altri hanno un’operatività molto limitata. L’apertura degli archivi al termine dell’attuale epidemia, che tutti ci auguriamo avvenga quanto prima, potrebbe svelare un’altra epidemia dei secoli passati, a cui far risalire gli scheletri del Castello. Ma per ora è prematuro sbilanciarsi: la medaglietta è solo uno dei possibili indizi, non una prova. Continuano intanto le ricerche su questo cimitero misteriosamente dimenticato nel cuore della città.