La ricerca di un antidoto contro l’individualismo
15 Luglio 2021
Il 2008, tutti lo ricordano, fu l’anno che diede il via a una terribile crisi economica i cui effetti più diretti si ebbero sul mondo del lavoro. Posti lavorativi che scarseggiavano, licenziamenti, difficoltà per i giovani a trovare una qualsiasi occupazione, aziende costrette a chiudere i battenti.Questa situazione fu vissuta in prima persona dalla Caritas diocesana di Gorizia – in quegli anni diretta da don Paolo Zuttion – che dovette in qualche modo “reinventarsi” alla luce delle nuove necessità che le nuove povertà presentavano. Allo stesso tempo dovette anche fare i conti con il crescente arrivo di migranti sul territorio e tutte le conseguenze che questa migrazione generò.Abbiamo incontrato don Zuttion e insieme a lui abbiamo ripercorso e approfondito quel particolare momento storico.
Don Paolo, lei è stato alla direzione della Caritas diocesana in un periodo non di semplice gestione, segnato da un lato dalla crisi economica del 2008, dall’altro da problematica migratoria proveniente dalla rotta balcanica, che sul territorio raggiunse una presenza rilevante, dando anche vita a non poche polemiche e malumori. Ma da cosa nasce questa “paura” dell’altro, perché è così difficile accettare qualcosa di “diverso”?Credo che la difficoltà ad accettare “l’altro”, nasca da una paura che questo ci possa portare via qualcosa. Mi spiego: viviamo in una società che gode di uno stato di benessere, pertanto l’altro – soprattutto se questo è molto povero, come la maggior parte degli immigrati che qui arrivano – ci ricorda la miseria, ci ricorda che non esiste solo il benessere ma esistono altre realtà di sofferenza, dovute anche al fatto che queste persone sono prive di lavoro, di beni materiali… Questo “altro” ci ricorda quindi un po’ ciò che siamo stati anche noi fino a non moltissimi anni fa, quando andavamo come lui in giro per il mondo in cerca di un futuro migliore. Questo ricordare, riporta alla memoria ciò che siamo stati e quello che potremmo tornare ad essere, perché il benessere può esaurirsi e cessare facilmente; ciò fa paura e c’è sempre bisogno di un capro espiatorio, quindi sono queste persone le prime ad essere additate, soprattutto se il lavoro scarseggia e si vive un momento di crisi, come accadde appunto attorno al 2008.Molte persone e politici hanno “cavalcato” quest’onda del malessere, dato da una situazione economica allora in peggioramento, accusando questi migranti come uno dei motivi – se non il motivo principale – per cui la nostra società rischiava e rischia di impoverirsi e di perdere tutto il benessere acquisito.
…ma l’obiettivo primario della politica non dovrebbe essere il perseguimento del bene comune? Certamente, il fine primario della politica è proprio quello di operare per il bene comune.Bene comune che sta anche nell’educare le persone alla solidarietà, ad essere attente agli altri, soprattutto agli ultimi, a chi è nel bisogno.Oggi nella nostra società c’è un forte individualismo, dove io difendo me stesso e quello che ho, contro tutto e contro tutti. Ciò alla fine porta ad un malessere comune, non ad un bene comune, che si fonda invece sulla capacità di relazionarsi con gli altri, di mettere in comune le proprie capacità e le proprie risorse per il bene di tutti, perché il bene di tutti è anche il mio bene.Spesso, come dicevo poco fa, la politica “cavalca” situazioni come quella legata agli immigrati, mettendo in evidenza questo dover difendere a tutti i costi il proprio bene personale contro coloro che vogliono “strapparcelo”; questo appunto porta ad una società individualista, dove non c’è più solidarietà, non c’è più quel capitale umano che è stato a lungo fermento, in modo particolare proprio della nostra società italiana.Il bene comune deve nascere dal fatto che io mi interesso all’altro, mi sento suo “custode”, perché sono “sulla stessa barca”. Se questo viene a mancare, salta tutto.
Poco fa si accennava al fatto che, durante gli anni della sua direzione, l’Italia dovette fare i conti con la grave crisi economica e lavorativa che la colpì. Alla luce di quegli eventi, anche inaspettati, come cambiò il modo di essere Caritas?All’arrivo della crisi non ci furono conseguenze immediate, ci volle un po’ di tempo perché se ne iniziassero a vedere i primi effetti.Possiamo dire che per il nostro territorio era un periodo abbastanza calmo: coloro che venivano a chiedere un aiuto alla Caritas erano persone già conosciute e seguite dai servizi ed era finto il tempo della grande ondata che aveva visto Gorizia come “porta d’Italia”, quando qui passarono centinaia di migliaia di persone dalla ex Jugoslavia e la Caritas si pose in prima linea per dare una risposta, anche con l’instaurazione del Centro San Giuseppe. Questo periodo appunto si era concluso, lo Stato aveva preso in mano la situazione e si stava vivendo un periodo di “bonaccia”.Poi riesplose tutto con la crisi economica e lavorativa. Alle persone già seguite da Caritas se ne aggiunsero altre: queste erano famiglie intere, rimaste senza lavoro, senza ammortizzatori sociali. Era davvero cambiato tutto, perché persone che mai prima di allora avevano avuto necessità di rivolgersi alla Caritas, ora si trovavano a dover chiedere aiuto, perché si erano viste senza alternative. Proprio in quell’occasione vennereato il Fondo Famiglie in Salita, finalizzato a non dare solo un sostegno economico ma, attraverso i voucher, creare opportunità di lavoro, o ancora l’Emporio della Solidarietà, tutto sempre nell’ottica della dignità della persona e con finalità educativa, tra gli obiettivi primari di Caritas.Accanto a questa crisi arrivò la nuova ondata di immigrati, che giungevano a Gorizia perché al tempo era l’unica città nel Nord – Est ad ospitare la Commissione per i Richiedenti Asilo.Ci ritrovammo quindi con queste due realtà che ci “sorpresero” in contemporanea; ma tutti i problemi che si presentano, alla fine aiutano a crescere, soprattutto nella dimensione della socialità. Come dicevo prima, da una parte c’era ostilità, dall’altra parte ho visto anche tanto bene, persone disposte a mettersi in gioco, a darsi da fare, a condividere anche materialmente qualcosa con chi ne aveva bisogno. C’è ancora tanto bene.
Durante la Sua direzione, proprio per i cambiamenti in atto a livello sociale, la Caritas divenne anche più “specializzata”, dotandosi di persone formate in determinati campi. Come convivono specializzazione e volontariato?La Caritas ha come obiettivo principale quello di educare le comunità cristiane ad una dimensione della carità e della solidarietà. Certamente non è un’educazione teorica – o non è solo quello – ma è un’educazione pratica in cui è la comunità a dover crescere nella carità e nella solidarietà. Il rischio, spesso dietro l’angolo, è quello della “delega”, quando invece si deve prendere coscienza che le povertà sono un problema di tutti, di tutta la comunità cristiana.Negli anni si è cercato di specializzare in questo alcune figure, perché si presentavano – come dicevamo poco fa – nuove necessità e il volontariato, da solo, non poteva farcela a gestire un intero sistema complesso come quello di Caritas; ci vogliono anche figure specializzate, formate, sia per offrire un sostegno puntuale e mirato, sia per gestire le varie pratiche burocratiche che il mondo di oggi richiede, per entrare in relazione con il settore pubblico, i Comuni, la Regione…Di pari passo i volontari proseguono con il loro ruolo fondamentale nell’accompagnamento della persona: si fanno carico dell’altro, gli stanno accanto, ascoltano la persona nelle sue necessità e la indirizzano. Il volontariato è un ruolo insostituibile e in qualche modo, a mio avviso, tutti i battezzati dovrebbero essere, a misura delle loro possibilità, volontari Caritas, proprio perché il suo fine principale è educare la comunità cristiana alla dimensione della carità.
Poco fa parlava del rischio che le povertà vengano delegate, demandate in toto alla Caritas…Credo che proprio per questo ci vogliano appunto anche persone professionalmente preparate: il rischio di sentir dire “C’è la Caritas a risolvere il problema” c’è, è reale; dobbiamo invece risolverlo assieme ai Servizi Sociali, ai Comuni, agli altri enti, fondazioni… con progetti comuni condivisi, nei quali noi ci impegniamo certo a portare avanti ciò che è il nostro operato specifico ma non dobbiamo essere soli a contrastare la povertà, la collaborazione ci deve essere sempre.Devo dire che, negli anni in cui sono stato direttore della Caritas diocesana, ho sempre visto una buona partecipazione, sia del settore pubblico che di quello privato, gli Empori della Solidarietà ne sono un bell’esempio.Questo secondo me è un po’ lo “stile” Caritas, ossia quello di coinvolgere e di animare anche in questo senso, animare il pubblico, coloro che sono i primi responsabili delle persone in difficoltà.
In quel periodo la Caritas diocesana si avvicinò molto anche al mondo del carcere, realtà spesso dimenticata. Ci racconta dei progetti messi in atto?Come Caritas ci siamo avvicinati particolarmente al mondo del carcere in primo luogo perché lì ci sono gli ultimi tra gli ultimi, poi anche perché come cappellano della Casa circondariale di Gorizia conoscevo e conosco molto bene quel mondo.Tra le varie iniziative che abbiamo messo in atto c’è stato grande coinvolgimento ad esempio con il teatro sociale – realizzato in collaborazione con la compagnia Fierascena – che ha fatto avvicinare centinaia di persone esterne alla realtà del carcere, venute per assistere a queste recite realizzate dai detenuti in mesi di preparazione. Tutto ciò li aiuta ad uscire da una certa “letargia”, tra i mali peggiori del carcere, caratterizzata dal tempo che non passa, dal non avere attività. Momenti come il teatro sociale aiutano inoltre ad interiorizzare ciò che sta succedendo.È stata un’esperienza molto interessante e abbiamo creato anche una specie di festival teatrale che ha permesso a detenuti di altri penitenziari di arrivare a Gorizia per mettere in scena il proprio spettacolo, corredato da incontri di approfondimento. Momenti come questo servono appunto per far conoscere la realtà del carcere alla città e al territorio, a farli “entrare” in questa realtà. C’è stato poi il progetto “Disma”, partito da Gorizia e portato anche in altre carceri del Paese: la difficoltà, per molte persone che potrebbero scontare la pena ai domiciliari, è trovare un posto dove andare. “Disma” crea delle possibilità – con il finanziamento di Caritas italiana – alternative alla carcerazione per chi ne può usufruire. Siamo agli inizi, le difficoltà sono tante, ma l’importante è essere partiti.In questo contesto sono stati messi in atto anche degli incontri sulla giustizia riparativa, aspetto su cui Caritas punta molto.
Guardando a tutti questi cambiamenti che ha visto e continua a vedere nella nostra società – perché l’ultimo anno e mezzo ha dato nuovamente uno scossone alla vita di molte persone -, chi è oggi il povero?Il povero oggi nasce da una povertà che c’è soprattutto nelle relazioni, nasce dall’individualismo.Sono più che convinto che l’individualismo porti ad un aumento della povertà, di persone che si trovano da sole ad affrontare le situazioni della vita, a volte estremamente difficili dal punto di vista economico ma non solo. Questa solitudine quindi porta ad una povertà anche materiale, frutto della mancanza di solidarietà, della mancanza di rapporti, della mancanza di relazioni.Non dobbiamo dimenticare che l’azione principale che può compiere la Caritas in questa società, è quella di creare relazioni, inizialmente nell’ambito della comunità cristiana ma non solo. Relazioni propositive, di auto – aiuto, di sostegno, ricordandoci però che non abbiamo delle mura attorno alle nostre comunità. In questo la Caritas, secondo me, ha una funzione fondamentale di “Chiesa in uscita”, come più volte ha richiamato papa Francesco, e può essere un “ponte” tra la comunità cristiana, animata da questa solidarietà, e “l’esterno”, in modo particolare verso coloro che sono nel bisogno, coloro che si sentono abbandonati e soli.
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