“Li inviò a due, a due… in ogni città e luogo” (Luca 10,1)
6 Ottobre 2021
Nei giorni scorsi la liturgia ci ha offerto la pagina evangelica che parla dell’invio in missione “a due a due” dei 72 discepoli in ogni città o luogo dove il Signore si stava recando (Lc 10,1-12). Un brano su cui mi sono soffermato a riflettere e a pregare, pensando ai trasferimenti che in queste settimane sto chiedendo ad alcuni sacerdoti. Trasferimenti che toccano la vita dei presbiteri, ma anche delle parrocchie e delle unità pastorali da cui partono o a cui sono inviati. Si tratta di momenti particolari nella vita di ogni comunità come anche di ciascun sacerdote interessato, che presentano aspetti indubitabili di disagio e di fatica, ma sono anche occasioni di verifica e di crescita nella dedizione al Signore e alla Chiesa in riferimento al Vangelo. II brano di Luca dice che la missione non è solo degli apostoli, ma che anche i discepoli sono chiamati a condividere la stessa missione di Gesù. Così è anche per il vescovo e per i presbiteri suoi principali e insostituibili collaboratori; ma anche tutti i fedeli sono chiamati a essere missionari e testimoni, ciascuno secondo la propria vocazione.
Gesù invita a pregare il padrone della messe affinché mandi operai nella sua messe: una preghiera che deve essere sempre presente nelle nostre comunità, mentre ringraziamo il Signore per i seminaristi che ci ha donato e per i 10 delle tre diocesi (Gorizia, Udine e Trieste), che hanno cominciato da poco l’anno propedeutico presso la nostra Comunità sacerdotale.
Il Signore poi descrive lo stile della missione, fatto di convinzione, di disponibilità, di capacità di relazione, di entrare nelle case della gente e insieme di grande libertà persino in occasione di eventuali rifiuti.
Devo riconoscere che, al di là di qualche comprensibile sorpresa e incertezza iniziali, ho riscontrato sia nei sacerdoti, sia nelle comunità questo stile indicato da Gesù. Certo il cambiamento è comunque non facile anche perché i nostri preti si spendono per le persone loro affidate, entrano nelle case e nella vita delle famiglie, prendono un po’ “l’odore delle pecore”, si caricano delle fatiche e sofferenze, condividono le gioie delle comunità in cui vivono. Le risorse affettive dei preti non sono infinite, e pertanto salutare qualcuno (anche se non si va lontano…), ricominciare nuove relazioni, affrontare problemi diversi, per quanto stimolante, è anche una sfida, a volte una vera e propria ferita che solo la fede nel Signore e il radicamento in Lui aiutano a guarire. I passaggi non sono facili anche per le comunità che giustamente mostrano un sincero e riconoscente attaccamento ai loro sacerdoti ed esigono di essere affrontati con altrettanta fede nel Signore. Però anche oggi chi come discepolo è chiamato a essere operaio nella messe del Signore non può avere preclusioni di luoghi o di paesi, ma dovunque è mandato deve portare il Vangelo con la parola e la testimonianza di vita, fidandosi del Signore e della collaborazione di fratelli e sorelle nella fede.
Certo in questo periodo il disagio per tutti è stato aumentato da situazioni contingenti come la pandemia, che ha rallentato e reso tutto complicato, e da altre circostanze non volute, che hanno condotto a vivere questi passaggi ad anno pastorale già iniziato. Si deve aggiungere pure il ritardo delle scelte pastorali diocesane dovuto all’avvio ancora poco definito del cammino sinodale che papa Francesco ha chiesto alla Chiesa italiana (all’interno del percorso dell’intera Chiesa riferito al prossimo sinodo dei vescovi avente per oggetto la sinodalità), cammino al quale anche la nostra Chiesa diocesana è chiamata a partecipare. Occorre quindi avere una grande comprensione e riconoscenza verso le comunità e i sacerdoti coinvolti per la disponibilità che stanno dimostrando nell’affrontare con fede e spirito ecclesiale questi trasferimenti.
La fatica dei passaggi può, però, essere almeno in parte alleviata con una maggiore consapevolezza di alcuni aspetti che caratterizzano il ministero presbiterale e la stessa realtà della Chiesa. È utile, pertanto, ricordarne due.
Un primo elemento, che talvolta non si tiene presente in maniera sufficiente, è il dato teologico legato alla natura stessa del presbiterato. Chi viene ordinato sacerdote lo è per la Chiesa e, specificamente, per la Chiesa diocesana in cui viene incardinato e non principalmente per una determinata parrocchia o comunità. Con l’ordinazione, infatti, il presbitero entra a far parte del presbiterio diocesano, che con il vescovo ha il compito di essere riferimento pastorale per l’intera Chiesa diocesana. Che un sacerdote sia parroco, vicario parrocchiale, cappellano di ospedale, professore di teologia o abbia qualsiasi altro incarico affidatogli dal vescovo, è un fatto importante ma secondario rispetto alla sua dedizione alla Diocesi e alla appartenenza al presbiterio. Il sacerdote vive quindi il suo specifico incarico sapendo di agire a nome del vescovo e dell’intero presbiterio.
Un secondo dato ecclesiologico fondamentale da ricordare e soprattutto da vivere è il fatto che la diocesi non è una specie di confederazione di comunità autonome, se non persino autoreferenziali, guidate da parroci e sacerdoti che agiscono tendenzialmente in autonomia rispetto al vescovo e al presbiterio, ma è la vera realtà di Chiesa, come voluta dal Signore. Le parrocchie e le altre realtà ecclesiali presenti nella diocesi, ne esprimono la pluriformità e l’articolazione locale, ma all’interno dell’unica comunione ecclesiale e delle linee pastorali comuni, che vanno condivise (anche nella loro definizione) e attuate con saggezza e continuità. Ciò richiede che i sacerdoti mettano in gioco tutte le loro qualità umane, cristiane e presbiterali a servizio della porzione del popolo di Dio loro affidata, ma in piena comunione e sintonia con il vescovo e il presbiterio, all’interno quindi delle scelte pastorali diocesane e con il coinvolgimento e la collaborazione dei fedeli in una prospettiva realmente sinodale. Se si vive tutto ciò, allora anche i cambi di incarico diventano molto più sereni per il sacerdote e per le comunità coinvolte. Per il sacerdote, perché i trasferimenti vengono considerati come modalità di servizio alla Chiesa, cui ci si è dedicati con l’ordinazione e l’incardinazione. Modi diversi, ma tutti importanti e significativi e comunque riferiti ai concreti bisogni del popolo di Dio. Per le comunità, perché a esse viene garantita una sostanziale continuità nelle scelte pastorali pur nell’avvicendarsi dei sacerdoti dal momento che ogni presbitero, ovviamente con le accentuazioni legate alla sua personalità, condivide con la sua comunità le stesse scelte diocesane fondamentali.
Ci sono poi tre dati molto concreti che possono facilitare i trasferimenti dei sacerdoti. Il primo è l’apprezzamento della comunità verso la libertà e lo spirito di servizio al Signore e alla Chiesa da parte di chi parte e di chi arriva. Se un sacerdote sente che la comunità che lascia, pur ovviamente dispiaciuta, comprende e ammira la sua disponibilità, tutto diventa più facile. Lo stesso vale per il sacerdote che arriva, se si sente non “pregiudicato”, ma accolto dalla comunità con uno sguardo fraterno di simpatia e di diponibilità. Una seconda realtà che aiuta in questi momenti – parlo di realtà e non di semplice auspicio, perché spesso corrisponde a ciò che già si vive – è il legame di stima reciproca tra i due sacerdoti con l’impegno a favorire al massimo il passaggio in un clima di collaborazione a servizio dello stesso popolo di Dio. Infine c’è da ricordare che la non vasta dimensione territoriale della nostra diocesi se da una parte può favorire pettegolezzi e qualche pregiudizio – dobbiamo onestamente riconoscerlo…–, dall’altra permette ai sacerdoti di andare in comunità comunque conosciute, come pure di mantenere relazioni significative con le persone incontrate nel corso del loro ministero, ovviamente nel massimo e delicato rispetto verso chi è subentrato nello stesso incarico.
Sono solo alcuni spunti su cui ho meditato, a partire dalla pagina evangelica che parla dell’invio in missione “a due a due” dei 72 discepoli in ogni città o luogo dove il Signore si stava recando (Lc 10,1-12). Mi sembrava giusto offrirli a tutti in questi giorni, mentre rinnovo il ringraziamento e l’apprezzamento a sacerdoti e comunità e assicuro per tutti la mia preghiera unita a quella del popolo di Dio.
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