“C’era una volta” il vigile urbano in bicicletta…

C’era una volta il vigile urbano. Ricordate? A piedi, in bicicletta, poi anche in moto. C’era quello simpaticone e c’era quello del quale si diceva che era forse anche troppo severo. Buoni o severi erano parte integrante del tessuto cittadino. La gran parte di percepiva come buoni amici della gente, anche quando dovevano tirare le orecchie a qualcuno. Le multe c’erano anche allora. Poi sono diventati ’polizia’.  Locale fin che si vuole, ma pur sempre polizia. Da noi ancora no, ma da altre parti sono già armati e qualcuno li vorrebbe così anche qui. Gli agenti sono aumentati di numero e girano sulle vetture di servizio con lampeggianti e la scritta ’polizia locale’ ben visibile. Anche le divise sono cambiate. Una volta sembravano vestiti a festa, eleganti, a parte quella specie di elmo che terminava con lo stemma della città in alto sul davanti. Oggi sono più pratici, più simil-militari. Dentro alle divise ci sono uomini e donne, bonari o severi come prima, ma l’immagine che si proietta loro addosso è diversa. La funzione repressiva, la ricerca e la punizione dei cattivi, viene loro cucita addosso come prevalente rispetto all’aiuto al cittadino a rispettare le regole della civile convivenza. Da sei anni a questa parte, inoltre, per la tutela dei cittadini e del territorio, si sono moltiplicati gli interventi, di altre realtà: guardie giurate armate per garantire la sicurezza di notte nel centro cittadino; volontari che avrebbero dovuto vigilare i territori dei rioni per combattere il degrado. E così il cittadino si convince che siamo in una città davvero pericolosa se c’è bisogno di così tanti interventi, che vanno a sommarsi all’attività istituzionale della Polizia di Stato, dei Carabinieri, della Guardia di Finanza. La tecnologia poi viene considerata come soccorso alla sicurezza. Un tempo le telecamere erano poste a vigilare il traffico su alcuni punti nevralgici della città. Oggi ce ne sono più di 270 e per qualcuno sono anche motivo di orgoglio perché, è stato detto, ne abbiamo una ogni cento abitanti. Nel frattempo, Monfalcone, per combattere il degrado e togliere certe fastidiose presenze, potenzialmente pericolose e comunque quasi sempre ai limiti del lecito, ha visto crescere barriere, recinzioni. I parchi, anche quelli dove i ragazzi vanno a giocare; l’area del piazzale Falcone e Borsellino; adesso si parla delle case comunali gestite dall’Ater tra via Giacich e via Barbarigo. Barriere e recinti di protezione, che hanno i cancelli beninteso, ma che di notte sono o saranno chiusi. Il contrasto a comportamenti illeciti o anche solo fastidiosi per gli abitanti sembra passare per le recinzioni, quasi che la soluzione dei problemi sia quella di togliere spazi fisici. L’immagine che Monfalcone offre di se stessa, attraverso l’informazione scritta o visiva è quella di una città che ha bisogno di un forte controllo da parte delle forze di polizia, che deve essere videosorvegliata, che recinta porzioni di città per avere miglior sicurezza. Pur tuttavia ci sono cittadini, come a Panzano, che hanno ritenuto di dover vigilare di notte per le strade per impedire a qualcuno di infilarsi nella case dove gli abitanti non vivono perché ospiti delle case di riposo. Quanto meno sono sintomo di una più larga percezione di insicurezza. La funzione repressiva è certamente necessaria di fronte all’emergere della criminalità, qualora si verifica. La prevenzione è più difficile perché richiede progetti e scelte con minor impatto visivo, ma se ben gestite, con risultati più duraturi. Il diritto ad avere un tetto sopra la testa è esercitabile da tutti se vi è una programmazione di edilizia pubblica aderente alle situazioni. Recuperando spazi inutilizzati o anche costruendo ex novo se necessario. Per farlo però occorre una politica di gestione del territorio che ne tenga conto. Le devianze giovanili, compreso il diffuso utilizzo di droghe, difficilmente sono risolvibili con i recinti. Valorizzare i servizi sociali di strada, creare o potenziare spazi di aggregazione costruttivi per i giovani, diffondere una cultura di inclusione e accoglienza, aiutare le istituzioni scolastiche ad essere non solo capaci di trasmette conoscenza, ma assieme ad essa anche un forte senso civico, sono alcune strade che richiedono programmazione e scelte adeguate. Faticose, certo, ma se non vogliamo diventare una società di recinti militarizzati sarà opportuno parlare di diritti e doveri e far crescere la consapevolezza che ogni gesto di ogni singolo può produrre benessere o malessere in tutta la comunità.Il percorso sinodale può essere per le comunità cristiane presenti in questo territorio anche un opportuno momento di riflessione sulla testimonianza da offrire per affrontare i problemi che investono la società in cui viviamo.