“Esserci”: l’aiuto più prezioso

Tante volte la vita ci urta, spesso senza preavviso,senza darci tempo di prepararci e ci ritroviamo fragili.Ci spezziamo interiormente, perdiamo coraggio, vivacità, ottimismo, fiducia ( in noi stessi, negli altri, in Dio….o in tutti insieme). E così ci ritroviamo bisognosi di protezione , di qualcuno che si prenda cura di noi, ci incoraggi, ci consoli. E il servizio della consolazione è una risposta umana e umanizzante a un vissuto ferito sotto il profilo fisico, psichico, sociale, morale, spirituale.Nel suo messaggio per questa XXXI^ Giornata mondiale del Malato papa Francesco infatti afferma: “La malattia fa parte della nostra esperienza umana. ma essa può diventare disumana se è vissuta nell’isolamento e nell’abbandono, se non è accompagnata dalla cura e dalla compassione”.  L’aiuto più prezioso che si può dare agli altri è “esserci”.Senza la capacità di essere presenti a chi soffre non si può realizzare nessuna forma di autentico ed efficace sostegno.Quando si è davvero presenti a qualcuno che soffre, quando condividi il cammino tu partecipi al suo dolore e disagio. la persona amica, capace di stare in silenzio, in un momento di disperazione, in un’ora di pena, senza pretendere di sapere, di curare, di guarire, ma capace di una vicinanza a testimonianza dell’amore di dio, è colui che davvero si prende cura. E’ il Buon Samaritano che si fa prossimo con l’intenzione di stabilire una adesione personale e libera del cuore, cioè nella volontà, nell’intelligenza, nell’affetto e nell’azione.Con l’aumento quantitativo e qualitativo delle forme di fragilità- penso a livellomentale- questa capacità di prendersi cura non può essere delegata esclusivamente agli operatori sanitari, agli operatori pastorali, ai familiari, ai volontari ma – come afferma la nota pastorale della Cei” Predicate il Vangelo e curate i malati” al numero 51 – deve “coinvolgere l’intera comunità cristiana”.E l’espressione del Buon Samaritano rivolta all’albergatore : “Abbi cura di lui” è uno stimolo a far crescere in tutti e in ciascuno uno stile di condivisione e così trasformare la solitudine in solidarietà e frantumare quel “a me che importa di mio fratello”.E’ urgente guardarci anche nelle nostre parrocchie. Secondo la nota pastorale della Cei del 2004 ” Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia”, la parrocchia è “una comunità di fedeli battezzati che dimorano in un dato territorio in cui si vivono rapporti di prossimità, con vincoli concreti di conoscenza e amore; in cui si accede ai doni sacramentali, al cui centro è l’Eucarestia; in cui si fa carico degli abitanti di tutto il territorio, senza esclusione di nessuno, senza possibilità di elitarismo, sentendosi mandati a tutti”. E certamente in una parrocchia c’è anche la mappatura del dolore e della sofferenza: malati che soffrono nelle proprie abitazioni, negli ospedali, nelle case di cura e di riposo; anziani e non autosufficienti  che vivono nella solitudine; bambini troppo piccoli per comprendere il mistero della sofferenza ma abbastanza grandi da farne esperienza; giovani dipendenti dall’alcool e dalla droga; disabili fisici e psichici; coniugi separati; orfani che non hanno mai conosciuto il calore di una casa, nè la carezza di un padre o di una madre; coloro che piangono per una persona che non c’è più. Qui l’intera comunità, nella varietà dei suoi componenti, è il soggetto protagonista della cura e -perchè no – della prevenzione. È importante favorire il passaggio da un atteggiamento di passività e di delega ad un attivo coinvolgimento e corresponsabilità di tutti: la parrocchia,la famiglia,i gruppi spontanei, le associazioni di volontariato. Tutti i cittadini credenti e non credenti, politici, amministratori, medici, infermieri, operatori sanitari che hanno a cuore il bene comune non popssono non avere la consapevolezza – come affermava san Giovanni paolo II- che “l’amore per i sofferenti è segno e misura del grado di civiltà e di progresso di un popolo”.