Qaraqosh: la vita ricomincia dopo l’esodo

Immaginate di ricevere una telefonata nel cuore della notte, che vi avvisa di lasciare in pochi minuti la vostra casa, perché dei terroristi stanno per entrare nella vostra città. Immaginate di abbandonare tutto dietro di voi, con i carri armati già alle porte, stare lontani 4 lunghi anni, per poi ritornare e trovare tutto distrutto. Questo quello che ha vissuto suor Patrizia Cannizzaro, francescana missionaria del Cuore Immacolato di Maria, insieme alle sue tre consorelle e l’intera popolazione di Qaraqosh, in Iraq. Oggi la vita per questa gente sta piano piano riprendendo il suo corso ma le difficoltà sono inimmaginabili.Abbiamo raggiunto telefonicamente suor Patrizia e ci siamo fatti raccontare il vissuto di quei drammatici giorni e di come oggi, tra mille criticità, abbiano potuto riprendere il servizio scolastico, elemento fondamentale per questa comunità.

Suor Patrizia, lei è l’unica suora italiana in Iraq. Ci racconti qualcosa di lei: com’è nata la sua vocazione e cosa l’ha portata lì?Sono originaria di Palermo e la mia vocazione è nata proprio sotto l’aspetto missionario, di cui ho sempre sentito grande desiderio. Ho intrapreso il cammino vocazionale e il Signore mi ha voluto in quest’Istituto missionario: mi sono formata a Roma e da lì ho preso i voti perpetui. La mia prima esperienza di obbedienza l’ho vissuta in Calabria, dove per 10 anni ho lavorato nelle carceri della Regione. Ciò mi ha aiutato nel fare discernimento, a non giudicare la persona ma accoglierla così com’è, come dono di Dio. Sono stati anni che mi hanno aiutata a crescere e a fortificare il mio carattere.Il Signore ha previsto quindi per me un’esperienza in Africa, in Guinea Bissau, dove ho vissuto quasi 6 anni in missione, aiutando nella parte infermieristica: l’esperienza più bella della mia vita. Ho toccato con mano l’essenzialità, il saper essere accogliente e riconoscere negli altri i doni che il signore dà, sperimentando il senso e la bellezza della vita.La nostra Superiora Generale mi disse quindi che avevano bisogno di me a Betlemme, dove ho vissuto un anno, in una realtà molto povera e in difficoltà proprio accanto al muro di separazione tra Israele e Palestina; un momento forte. Si era programmata quindi l’apertura di una comunità a Qaraqosh, in Iraq, una realtà cristiana, dove mi trovo ora. Mi sono dichiarata pronta con il mio “zainetto” di esperienze, ho fatto i bagagli e sono partita. Era il 2012. I primi anni sono stati bellissimi, gestivamo una scuola con 500 bambini, c’erano tante famiglie e una forte presenza cristiana. Poi nel 2014 è cambiato tutto con l’arrivo dell’Isis.

Qual è stato il momento in cui lei e le sue consorelle avete deciso di partire? Avevate ricevuto qualche allerta?Da circa 15 giorni l’Isis si era avvicinata molto a Mosul, si sentivano bombardamenti, spari. Chi stava in “allerta” era proprio il nostro vescovo – qui infatti chi è un po’ il responsabile di tutte le comunità e famiglie è proprio la figura vescovile -.Un giorno, verso le 22, ha fatto suonare tutte le campane – questo era il segnale deciso per un’eventuale allarme -; io e le mie tre consorelle ci siamo così recate, come da accordi precedenti, presso un istituto più grande di suore domenicane, tutte locali, che ci avevano offerto accoglienza e riparo. Verso le 23.30 però arrivò una chiamata proprio del vescovo, il quale e ci disse di prendere poche cose e andare via subito. Abbiamo così consumato il Santissimo – non potevamo lasciare che l’Eucarestia venisse profanata – preparato un piccolo bagaglio e siamo partite velocemente. Abbiamo lasciato dietro di noi tutto, non abbiamo preso niente; pensavamo di stare lontane solo qualche giorno, invece poi sono stati quattro anni.È stata un’esperienza durissima, molto difficile: un vero e proprio esodo – come quello del popolo d’Israele -. Noi avevamo un’auto (avevamo anche un bus ma purtroppo ci era stato rubato dall’Isis), che avevamo messo a disposizione, ma ad un certo punto non è stato più possibile proseguire con i mezzi, abbiamo abbandonato l’auto e continuato a piedi, assieme a tutta la gente in fuga. Abbiamo fatto più di 40 chilometri a piedi, sotto il sole cocente dell’estate irachena, portandoci solo lo stretto necessario caricato sulle spalle, per arrivare ad Erbil. Lì siamo stati accolti dai kurdi e siamo stati dislocati in varie parti della città – nelle scuole, nelle parrocchie, nelle palestre -, dormivamo a terra o anche all’aperto.Noi religiose ci siamo subito messe a disposizione del vescovo e della diocesi, perché anche lì c’era tanto bisogno nella distribuzione del cibo e dell’acqua, dei beni di prima necessità, delle medicine, perché stavano iniziando ad arrivare da tutte le parti persone e famiglie in fuga.

Ci sono stati dei momenti in cui avete temuto potesse accadere il peggio?Abbiamo avuto momenti di paura, molti momenti di paura in verità, perché quando uscivamo da Qaraqosh i guerriglieri entravano con i loro carri armati, ci hanno anche sparato addosso… Veramente il Signore ci ha protetti. La cattiveria è stata tanta, hanno distrutto tutto quello che hanno trovato davanti a loro, ci sono state molte vittime e tra queste numerosi bambini.Abbiamo vissuto momenti di panico, è stata dura e difficile ma la cosa che ci ha contraddistinto è stata la nostra fede e la speranza di poter tornare indietro un giorno. Questa è gente che ha sofferto molto: la Guerra del Golfo, la Guerra di Saddam, l’occupazione dell’Isis… ogni volta perde tutto e non è solo il perdere la casa e i propri beni, è perdere la dignità di appartenere a un popolo. Però la solidarietà e la fede sono grandissime, rinunciano alla propria vita, piuttosto che rinnegare la propria fede.

Chi sono i cristiani di Qaraqosh e qual è oggi la realtà dei cristiani rimasti in Iraq?Il Paese è uno Stato musulmano e la presenza dei cristiani si è molto ridotta, perché tanti sono emigrati. Attualmente Qaraqosh rimane sostanzialmente l’unico paese cristiano in Iraq, con una presenza di cristiani numerosa.I cristiani di Qaraqosh sono quasi tutti di rito siriaco cattolico; hanno una fede forte, quotidianamente tantissime persone, compresi tantissimi giovani, partecipano alla messa e i sacramenti sono molto sentiti e vissuti; in questi vengono accompagnati dalle comunità religiose qui presenti, che si prendono cura del cammino spirituale della gente.I rapporti con i musulmani non sono semplici né distesi, perché questi cristiani hanno sofferto tanto i soprusi, pertanto per loro è un po’ difficile la convivenza e non c’è un’apertura, perché si pensa sempre a tutto quello che c’è stato. I posti di lavoro migliori poi vengono affidati ai musulmani, per i cristiani i lavori restano i più umili, pertanto si sentono sempre messi da parte.Anche se la Chiesa cerca di aprire gli orizzonti, rimane comunque una realtà molto chiusa, protettrice, probabilmente proprio alla luce di tutte le situazioni che ha vissuto.

Com’è vissuta la vostra presenza sul territorio e dalla popolazione locale?La nostra presenza è fondamentale ed è graditissima, siamo veramente amate, come tutti i religiosi presenti qui. Le famiglie poi sono grate del servizio scolastico e del sostegno che offriamo loro, sostenendole nella cura dei propri figli. Sono tante le famiglie in difficoltà, non solo per la povertà e la mancanza di lavoro ma anche a livello sociale: molti dei nostri bambini non hanno i genitori o sono dispersi da tempo.

Una volta tornate, cosa avete trovato della vostra città e da cosa avete potuto ripartire?Siamo ritornate solamente all’inizio del 2019. Quando la città è stata liberata, è stato trovato tutto distrutto, non c’era più niente. La ricostruzione è partita quindi dalle famiglie, ossia pensando prima a ricreare le case per dare loro un posto dove vivere; solo poi i conventi e le chiese.La nostra casa, essendo di cemento armato, nella parte esterna era intera ma dentro non c’era niente, era rimasto solo lo scheletro. Abbiamo dovuto ricostruire e ricomprare tutto ciò che conteneva, ricominciando da zero.Il nostro servizio è quindi ripartito aiutando le famiglie, sostenendole, prendendoci cura dei bambini, riunendoli, per non far sentire loro il disagio: Qaraqosh non si poteva guardare, dove ti giravi vedevi macerie.I bambini che erano infatti quelli che soffrivano di più, perché non potevano scendere in strada, non avevano più uno spazio loro dedicato, dove potersi ritrovare e vivere la loro infanzia. Mi sono quindi messa in contatto con i soldati italiani presenti ad Erbil, per vedere se ci potevano aiutare: si sono attivati per una raccolta e grazie al loro sostegno si è potuto sistemare il parco giochi presso la nostra scuola, per poter dare un luogo accogliente e un po’ di svago a questi bambini.Piano piano abbiamo così ricominciato anche le attività della nostra scuola e ora abbiamo con noi 235 bambini. In questo momento non abbiamo più spazi – ho usato anche le camere delle suore e parte del convento per realizzare aule! -. Avremmo un terreno dove poter costruire una scuola più grande, ma ci mancano i mezzi. Abbiamo infatti difficoltà non indifferenti a livello economico, perché siamo soltanto quattro suore e viviamo di quello che possiamo racimolare e del sostegno che ci arriva dal nostro Istituto in Italia e da persone di buona volontà.

Ci parli un po’ della vostra scuola, certamente un servizio molto importante per tante famiglie… Avete dei progetti che vorreste sviluppare?È una scuola materna, accoglie bambini dai 3 ai 5 anni e abbiamo 15 tra maestre ed aiutanti.La grossa difficoltà per noi è rappresentata dal trasporto scolastico: affittiamo, in collaborazione con la Nunziatura apostolica, 4 autobus che possono portare ciascuno fino a 40 bambini, ma ognuno di essi al mese costa quasi 800 dollari. È un servizio però assolutamente necessario, perché qui i genitori non hanno automobili e anche se le distanze sono brevi, le strade sono pericolose e i genitori hanno paura che i figli possano venir rapiti – un bambino cristiano fa “gola” ai fondamentalisti… -. Abbiamo in progetto di acquistare almeno un autobus, per tagliare un po’ le spese, dobbiamo però trovare i fondi per far fronte a questa uscita.Le maestre poi non hanno un vero e proprio stipendio, lo fanno solo spinte dalla loro buona volontà; si offrono però ogni giorno dalle 8 del mattino fino alle 14 e noi desideriamo pagare loro almeno qualcosa, perché è un grande impegno quello che si assumono.Abbiamo poi un guardiano, che sorveglia l’edificio durante la giornata, perché abbiamo bisogno di sicurezza non tanto per noi quanto soprattutto per i bambini.Non c’è luce, andiamo avanti con i generatori ma garantiscono la corrente solo per alcune ore al giorno e questo, in un Paese così ricco di risorse, è davvero paradossale.In molti mi chiedono perché non torno in Italia, dove starei sicuramente meglio; ma io rispondo che io non voglio “stare bene”, io voglio “fare del bene”.

Prima accennava al fatto che molti bambini sono rimasti orfani o hanno i genitori dispersi. Credo questo sia rilevante anche per capire quale sia ora il tessuto sociale. Di che percentuali parliamo?Nella nostra scuola rappresenta quasi il 10%: qualcuno non sa dove siano finiti i genitori, tanti li hanno persi durante i quattro anni di occupazione, alcuni sono morti in giovane età per malattie e infarti. Qui infatti a 30 anni si muore di infarto, è pazzesco da credere. Questa zona, nell’arco degli anni, è stata bersagliata in tutti i modi – Quaraqosh ma un po’ tutto l’Iraq -; tanti gas sono stati inalati da questa gente e hanno subito molte vessazioni, torture. I cancri proliferano, quasi tutti i giorni muore qualche giovane. Nascono poi moltissimi bambini con disabilità, con malformazioni e problemi cardiaci. Una bimba della nostra scuola, ha solo 4 anni, negli scorsi mesi ha subito un trapianto di fegato ma si è dovuto portarla fino a Gerusalemme e abbiamo sostenuto noi questa spesa. Ora sta incominciando a muovere di nuovo i primi passi da sola, frequenta la scuola e cerca pian piano di riprendere la sua vita da bambina.

Il 2021 ha visto la visita in quei territori di papa Francesco. Che cosa ha significato per voi e per la gente di Qaraqosh? Cosa vi ha lasciato?È stato un evento formidabile, eccezionale, per il quale si è messa in moto una vera macchina dove chiunque poteva dare una mano l’ha fatto. La venuta del Papa in questi territori è stata più che importante, fondamentale, è stato come un olio che rinfresca la ferita e dà sollievo, soprattutto per una Qaraqosh che era stata ridotta in macerie e le chiese completamente distrutte, con tutti i simboli sacri sfregiati e profanati. “Non sono venuto per visitarvi e chiedervi come state, sono venuto a curare le vostre ferite” ha detto papa Francesco, che ha ricordato anche alla popolazione il suo essere popolo delle origini della cristianità e della fede; ha dato forza a non perdere mai la speranza e stimolo a non rinunciare alla propria terra, a restare e il desiderio di appartenere a un popolo.È stato come se ci avesse abbracciato tutti con la sua presenza di speranza.Da qui si è ripartiti con l’idea di continuare a lottare per la propria terra; certo qui il problema forte è la mancanza di lavoro: ci vorrebbero fabbriche, promozione dell’agricoltura, dell’allevamento progetti a lungo termine su ampia scala dove la gente possa lavorare.Manca la sicurezza e la certezza in questo Paese e questo destabilizza tutto e tutti, c’è sempre tanta paura che tutto quello che è accaduto possa tornare.