Non c’è pace senza giustizia, non c’è giustizia senza perdono

L’ultina domenica di febbraio ho avuto un incontro con un gruppo di adolescenti dell’arcidiocesi di Milano provenienti dal decanato Valceresio, sito nella provincia di Varese. Come dice il nome, si tratta di una zona che si trova nei pressi del lago di Lugano, chiamato anche Ceresio. Un decanato quindi posto su un confine, quello con la Svizzera.

Mi ha incuriosito il fatto che siano venuti da noi proprio per fare un’e- sperienza di confine. Sembra strano che loro, figli di genitori che ogni giorno varcano la mattina e la sera il confine come lavoratori transfrontalieri, siano giunti fin qui per conoscere una frontiera. In effetti l’esperienza del nostro confine è molto diversa da quella che si vive a ridosso della Svizzera. A parte qualche tensione, che capita ogni tanto in quello Stato confederale tra la popolazione residente e i lavoratori stranieri, quel confine è da secoli tranquillo.

Ben diversa la nostra situazione e per questo sono venuti fin qui. Nell’incontro avuto con loro, al termine dei tre giorni trascorsi sul confine anche nella realtà di Trieste, dopo aver ricordato brevemente le nostre tragiche vicende, ma aver anche accennato al cammino di riconciliazione e di superamento della divisione che ha visto nei decenni un particolare impegno delle nostre due città e anche delle comunità cristiane di Gorizia e di Nova Gorica, hanno osservato che possiamo essere visti come un esempio nel conte- sto di oggi, in un mondo dove anche in Europa i confini stanno ritornando a essere in diversi luoghi dei muri invalicabili e dove la pace è concretamente messa in pericolo. Anche il cardinale Zuppi, nell’incontro di venerdì scorso, ci ha riconosciuto un ruolo importante ed esemplare nell’essere cerniera tra le culture.

Mi ha molto colpito questo apprezzamento e il vederci come un esempio. La sensazione è che siamo poco consapevoli della nostra peculiarità, che deriva dalla nostra storia, dalla nostra posizione geografica e anche dalle esperienze, spesso positive, che già abbiamo vissuto o viviamo. Una peculiarità che ci rende particolarmente responsabili nei confronti non solo dell’Italia, della Slovenia e di altre nazioni vicine, ma dell’Europa. Una responsabilità verso la pace da cui non possiamo sottrarci e che deve trovare nell’essere capitale europea della cultura tra due anni un’occasione preziosa per esprimersi con coraggio e con contenuti veri. Lo richiede non tanto un’occorrenza così importante e non facilmente ripetibile nel tempo, ma la situazione che stiamo vivendo oggi nel cuore dell’Europa. Non dimentichiamo che la distanza tra noi e il confine con l’Ucraina è poco più di quella che dobbiamo percorrere per arrivare a Napoli. Ma la condizione di progressivo oscuramento della pace e spesso di aperti conflitti riguarda tutto il mon- do. Già nel 2014 papa Francesco, nella sua visita al cimitero di Redipuglia, aveva parlato di una terza guerra mondiale combattuta a pezzetti. Allora ci sembrava forse esagerata questa sua affermazione – che ha ripetuto molte volte in questi anni, talvolta ricordando esplicitamente la sua profonda e commossa esperienza al sacrario –, ma i fatti stanno purtroppo dando ra- gione al Santo Padre.

Senza alcuna pretesa di completezza e, a maggior ragione, di precisione storica, vorrei avviare una riflessione a partire dalla nostra esperienza lasciandomi guidare da due semplici domande: che cosa ha favorito la situazione di conflitto che ha portato alle guerre del secolo scorso con il loro strascico di lutti, di tensioni, di contrapposizioni? Che cosa, al contrario, ha fatto crescere un percorso di pace, di riconciliazione e di superamento dei confini dalla fine della seconda guerra mondiale ai nostri giorni? Domande che devono portarci all’oggi, perché, lo sappiamo bene, se non si avanza nel cammino della pace, non si resta fermi, ma si va indietro, anzi si rischia di scivolare e di essere risucchiati nell’abisso infernale della guerra, perché le forze contrarie alla pace sono sempre all’opera instancabilmente.

Che cosa, pertanto, a partire da ciò che la nostra terra ha sperimentato nel secolo scorso, ha portato alla guerra?

Un primo elemento evidente sono le ideologie. Intendo riferirmi sia alle ideologie più strutturate, un vero e proprio sistema di pensiero e di azione, sia a quelle che sono poco più di alcuni slogan efficaci. In ogni caso l’ideolo- gia ha un forte potere di suggestione, in particolare sui giovani: ti offre una chiave semplificata di comprensione del mondo e di giudizio sulla realtà (compresa la netta distinzione tra amici e nemici), ti presenta delle mete da raggiungere (spesso utopiche, ma non per questo meno capaci di fascinazione), ti propone dei forti ideali per cui vivere e per cui anche morire (e purtroppo anche uccidere…).

Uno dei motivi più convincenti delle ideologie è dato dal fatto che contengono pure degli elementi di verità, anche se estremizzati. Per fare un solo esempio, pensiamo alla ideologia nazionalista. La nazione è un valore e non un disvalore e anche preoccuparsi per essa è un bene, anzi un dovere. Nell’enciclica che papa Francesco ha dedicato alla fraternità e l’amicizia sociale, la Fratelli tutti del 3 ottobre 2020, ha parole molto precise in questo senso: «Ciascuno ama e cura con speciale responsabilità la propria terra e si preoccupa per il proprio Paese, così come ciascuno deve amare e curare la propria casa perché non crolli, dato che non lo faranno i vicini. Anche il bene del mondo richiede che ognuno protegga e ami la propria terra. Viceversa, le conseguenze del disastro di un Paese si ripercuoteranno su tutto il pianeta. Ciò si fonda sul significato positivo del diritto di proprietà: custodisco e coltivo qualcosa che possiedo, in modo che possa essere un contributo al bene di tutti» (Fratelli tutti, n. 143). Ma se in nome della nazione si pretendono confini artificialmente stabiliti (magari solo su presunte coerenze geografiche) a prescindere dalle popolazioni che abitano su quel territorio, si considerano i popoli confinanti come possibili minacce se non come ovvi nemici, si avanzano pretese territoriali al di là delle frontiere stabilite internazionalmente, si discriminano e si perseguitano le minoranze, si impone una lingua e una cultura, ecc. è evidente ed inevitabile cadere prima o poi in un conflitto. Quando dominano le ideologie si at- tivano, inoltre, processi perversi di polarizzazione: chi è, per così dire, in mezzo, per opporsi agli effetti devastanti di una ideologia, alla fine si deve schierare con quella contrapposta, che pure ha molti elementi negativi. Così, in nome anche di ideali giusti, non si fa che accentuare lo scontro tra ideologie con i relativi esiti disastrosi che provocano migliaia di morti.

Sorella e serva della ideologia è la propaganda, che strumentalizza e spesso nasconde la verità, che contemporaneamente semplifica e assolutizza le informazioni, che sfrutta abilmente le emozioni della gente estremizzandole e ponendole al servizio dei potenti. Nell’ultimo libro della Bibbia, l’Apocalisse, che non è il racconto della fine del mondo bensì l’offerta di una chiave interpretativa della storia, si dà rilievo, come attore del male del mondo, al drago, che però è accompagnato da due bestie: la prima che fa la guerra contro i giusti – la forza militare –, la seconda che porta a servire la prima bestia: la forza della propaganda. Così viene descritta l’opera di quest’ultima: «essa esercita tutto il potere della prima bestia in sua presenza e costringe la terra e i suoi abitanti ad adorare la prima bestia […]. Opera grandi prodigi, fino a far scendere fuoco dal cielo sulla terra davanti agli uomini. Per mezzo di questi prodigi, che le fu concesso di compiere in presenza della bestia, seduce gli abitanti della terra, dicendo loro di erigere una statua alla bestia […]. E le fu anche concesso di animare la statua della bestia, in modo che quella statua perfino parlasse e potesse far mettere a morte tutti che non avessero adorato la statua della bestia. Essa fa sì che tutti, piccoli e grandi, ricchi e poveri, liberi e schiavi, ricevano un marchio sulla mano destra o sulla fronte, e che nessuno possa comprare o vendere senza avere tale marchio, cioè il nome della bestia o il numero del suo nome» (Apocalisse 13,12-17). Impressionante rappresentazione della propa- ganda al servizio del male.

Un terzo fattore che favorisce il conflitto e può portare alla guerra è costituito da una serie di mancanze. Anzitutto l’incapacità di costruire e mantenere una struttura giuridico-amministrativa regionale, statale o sovrastatale capace di custodire e promuover l’unità nella diversità, nel rispetto della dignità e dei diritti di tutti, singoli e comunità. Secondariamente, il non essere in grado di soddisfare i bisogni primari della gente, di gestire e superare le crisi economiche, di offrire delle prospettive ai giovani. Anche il non rispetto dei diritti fondamentali, la coercizione delle libertà democratiche, la mancata libertà di espressione, la sottomissione della cultura alla ideologia dominante, ecc. possono incrementare tensioni e conflitti.

Lascio a voi collegare questi accenni su ciò che favorisce la guerra a realtà vissute tragicamente in questa nostra regione del litorale o dell’alto Adriatico e, purtroppo, anche a situazioni che si stanno vivendo in Europa o in altre parti del mondo.

La nostra esperienza, per fortuna, è stata ed è anche positiva. Evidenzierei solo due aspetti. Il primo – lo so bene – è quello più problematico e faticoso, ma è fondamentale ed indispensabile ed è paradossalmente la rinuncia all’attuazione retroattiva della giustizia. La giustizia è un grande valore decisivo per la pace: non c’è pace senza giustizia. Ma il grande papa san Giovanni Paolo II aveva significativamente intitolato il suo messaggio per la giornata mondiale della pace del 1° gennaio 2002 completando que- sta affermazione: “Non c’è pace senza giustizia, non c’è giustizia senza per- dono”. La realtà umana non è mai bianca o nera, la giustizia o l’ingiustizia non sono mai da una sola parte. Nessuno è soltanto Abele, tutti – chi più, chi meno – siamo anche Caino. È giusto chiedere la giustizia e pretende- re che chi ha sbagliato paghi, ma quando ci si trova dopo una situazione estremamente intricata e complessa, dove diventa difficile ricostruire torti e ragioni e dove la ricerca astratta di una presunta giustizia porta inevitabilmente a riaprire ferite, a risuscitare emozioni pericolose, a offrire spunti a derive ideologiche, a metter in questione confini palesemente ingiusti ma ormai approvati internazionalmente, forse la via più saggia e costruttiva e persino più “giusta” è quella di perdonare, di chiedere perdono, di avviare percorsi di riconciliazione e di ripartire con coraggio e fiducia. Mi pare che qui da noi e non da oggi, la maggior parte delle persone si sia messa su questa strada anche sostenute da tanti progetti positivi.

Perché il secondo elemento che porta e mantiene la pace è attivare tutte quelle iniziative che portano a conoscersi, a capirsi anche tra lingue e culture diverse, a lavorare insieme per qualcosa di grande e di bello, a offrire ai giovani una visione piena di speranza, a essere capaci di accoglienza verso chi viene da altri paesi, a creare un tessuto economico e sociale integrato e in buona salute, a valorizzare la cultura e la storia comune e così via. Su questo – diciamocelo con franchezza – si lavora, ma c’è ancora molto da impegnarci prima, durante e oltre la scadenza ormai ravvicinata del 2025. Vogliamo farlo anche come Chiesa di Gorizia, unitamente alle Chiese sorelle che riconoscono in Aquileia le loro radici, portando misericordia e perdono nella nostra Città e nel nostro territorio e favorendo tutto ciò che contribuisce alla pace.

Come Chiesa non siamo indenni e innocenti: anche la religione può di- ventare un’ideologia, può fare propaganda e può promuovere la divisione. Ma se si rimane attaccati al Vangelo la fede diventa riferimento a un Assoluto che aiuta a relativizzare le ideologie; la fede non si diffonde per propaganda, ma per testimonianza di chi dona la propria vita per amore, come hanno fatto i martiri Ilario e Taziano che oggi ricordiamo. L’azione dello Spirito permette di apprezzare la ricchezza della diversità nell’unità: tensione da tenere insieme difficilmente solo con le nostre forze, ma possibile allo Spirito di Dio. In un mondo lacerato da guerra e violenza, talvolta è difficile vedere in che modo il Vangelo possa portare alla pace. Ma la nostra fede ci assicura che Gesù è il Dio che agisce nella storia umana ed è l’incarnazione della pace. Lui è il principe della pace: «Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore» (Gv 14,27).

Concludo scusandomi con i nostri santi patroni, Ilario e Taziano. Non ho parlato di loro, ma ho la presunzione di dire che se vivessero oggi lavorerebbero molto per la pace. Sono certo che lo fanno per noi dal cielo con la loro preghiera.

Buona festa.