30 anni di diaconato permanente

Sono passati 30 anni da quel 25 settembre 1993, quando nella basilica di Aquileia, affollata da migliaia di persone, l’Arcivescovo di allora padre Antonio Vitale Bommarco, ordinava diaconi permanenti cinque uomini sposati: Piero Basile che ci ha lasciato alcuni anni fa, Mario Petri, Mario Gatta, Franco Baggi ed ioAvvicinandoci a questo nostro anniversario, ho sentito l’esigenza di tornare indietro nel tempo, non per nostalgia, ma per una riflessione che voglio condividere e sono andato così a rileggermi alcuni articoli di quei giorni sui numeri di Voce Isontina che custodisco come ricordo di una giornata emozionante, carica di gratitudine, di novità, di speranza, non solo per la nostra Chiesa diocesana ma per ognuno di noi e per le nostre famiglie.Scriveva don Renzo Boscarol allora direttore del giornale, sulla prima pagina del numero di sabato 25 settembre ’93: “Misericordiosi, attivi, camminanti nella verità del Signore, il quale si è fatto servo di tutti. Così il Concilio nella Costituzione dogmatica sulla chiesa citando un monito di San Policarpo. Una citazione di sicuro rilievo soprattutto alla luce dell’intera carta costituzionale che ha restituito dignità ed operatività al diaconato permanente nella comunità ecclesiale. La visione di Chiesa che il Concilio propone con larghezza di visione e di esigenze ministeriali da sviluppare, è quella essenziale e forte del servizio come donazione disinteressata e di amore. In altre parole, le singole chiese locali sono state invitate a riscoprire il servizio dei diaconi ripensando sé stesse e anzi proponendosi secondo una sempre più spiccata esigenza di servizio e di donazione”. Concludeva poi scrivendo: “Per ammissione di tanti questo inizio del diaconato permanente nella chiesa goriziana ha bisogno di essere accompagnato e sostenuto dal consenso, dall’ accoglienza, proprio perché è ancora troppo debole l’approfondimento e la compartecipazione, la condivisione e l’accettazione della responsabilità comune. Nel trapasso di mentalità che ancora con questo atto si intende incitare nella chiesa diocesana, resta uno spazio da riempire; occorre che siano stimolate le singole componenti della chiesa, presbiteri in primo luogo, ma anche i laici, ad accogliere questo dono e questo ministero”.Un auspicio ed uno spazio che forse non è stato riempito, pur essendoci state in seguito altre ordinazioni di diaconi permanenti, siamo ad oggi in undici, forse è mancata una sufficiente riflessione sull’identità, sul ruolo, sul significato più ampio della diaconia di cui noi dovremmo essere il segno, il richiamo sul modello di Cristo servo, o con una bella definizione “essere i custodi del servizio”.Oppure potremmo chiederci se anche noi diaconi, in tutta umiltà, siamo riusciti a trasmettere uno stile di vita, a testimoniare la carità, ad aprire spazi e creare ponti e relazioni positive, ad essere uomini della soglia. Senza nessun giudizio, credo che questo traguardo potrebbe essere l’occasione per una riflessione più ampia sul significato di Chiesa ministeriale, per una verifica, per metterci in ascolto, alla luce di questa esperienza trentennale, che potrebbe aiutare noi diaconi per primi e tutta la nostra Chiesa diocesana. Mi chiedo se la presenza di noi diaconi abbia arricchito le nostre comunità, se siamo stati capaci di animare le persone al servizio, se siamo stati un dono dello Spirito, una risorsa, oppure siamo stati di ostacolo o di freno alla partecipazione e alla comunione. All’inizio come un po’ in tutte le diocesi a livello nazionale, c’è stato un certo imbarazzo tra i sacerdoti su come “utilizzare” i diaconi, dovuta forse alla poca chiarezza sui contorni precisi da dare a questo ministero. Oppure prima del mandato non ci si è chiesti di che cosa la Chiesa poteva aver bisogno come servizio gratuito, permanente, stabile, dedicato. Alle origini i primi sette non erano stati scelti per contrapporsi o copiare gli apostoli, ma per fare “altro”, ed in seguito erano stati posti in un rapporto stretto col proprio vescovo e in collaborazione con i presbiteri al servizio delle comunità. Non è stato sempre facile neanche per noi far convivere il sacramento del matrimonio con quello dell’ordine, insieme alla nostra professione lavorativa. Spero però che negli anni alcune incomprensioni si siano superate e che oggi veniamo visti non come decoro liturgico, ma come segno di una disponibilità a servire. Ora con la nascita delle Unità pastorali penso si potrebbe delineare ancora meglio la nostra figura e che potrebbe essere valorizzata in vari ambiti, all’interno di una pastorale d’insieme, come la fantasia della carità e l’emergenza dell’annuncio possono suggerire. Riprendo le parole del vescovo Bommarco che nell’omelia della nostra ordinazione, commentando l’episodio della lavanda dei piedi nel vangelo di Giovanni disse: “Si alzò da tavola”… vivere il Mistero dell’Eucarestia deve stimolare alla missionarietà nel mondo… la spiritualità dei diaconi deve trovare completezza e maturità nelle storie e nelle persone della quotidianità; “Depose le vesti”… quelle dell’orgoglio, della tentazione di sentirsi su uno scalino più alto;” Si cinse un asciugatoio”… deve mostrare e attuare quell’amore grande, sacramentale e inaspettato”. Parole che ci devono ricordare sempre, anche a distanza di trent’anni, la vocazione alla quale siamo stati chiamati e a viverla con gioia, passione, umanità e dono gratuito. E ricordo anche le parole di papa Francesco rivolte ai diaconi della diocesi di Roma alcuni anni fa: “Siate umili, bravi sposi e padri, sentinelle che vedono i lontani, i poveri e aiutano le comunità cristiane a farsi carico dei fratelli che sono nella necessità e nella sofferenza”. E concludo con un grazie di cuore a don Adelchi, che fin dall’inizio, come delegato diocesano, ci aveva seguito e incoraggiato e un grande grazie alle nostre care mogli, senza il cui sostegno e condivisione, non avremmo mai potuto pronunciare quel “eccomi”!