Iran: dalle proteste di piazza alla disobbedienza civile

Il 16 settembre 2022, a Teheran veniva uccisa la ventiduenne curda Mahsa Amini, colpevole, per la polizia morale della Repubblica islamica dell’Iran, di essersi presentata in pubblico mal velata, con una ciocca fuori posto. La morte di Mahsa ha innescato la coraggiosa protesta delle giovani iraniane riversatesi nelle strade al grido di “Donna, vita, libertà”. Sul tema dell’emancipazione femminile e delle battaglie per i diritti delle minoranze, abbiamo sentito Farian Sabahi, ricercatrice senior in Storia contemporanea presso l’Università dell’Insubria (Varese e Como) e autrice di “Noi donne di Teheran” (Jouvence 2022) e del saggio “Storia dell’Iran 1890-2020” (Il Saggiatore 2020). Giornalista, regista, fotografa italo-iraniana, è stata ospite dell’ultimo   appuntamento del Festival  internazionale della   Conoscenza “dialoghi” a Gorizia e a Turriaco.

Professoressa Sabahi, le ragazze di Teheran hanno affermato con il corpo il diritto di esistere come persone detentrici di diritti. A dire, con tenacia, “Esistiamo, dovete vederci”. A che punto è la cosiddetta “rivoluzione dei capelli”? La repressione di regime le sta togliendo vigore?
A causa della repressione di regime, da mesi si è ormai passati dalle proteste di piazza alla disobbedienza civile. In altri termini, le iraniane e gli iraniani non stanno più manifestando per strada. Molte donne, di ogni età e ceto sociale, stanno invece trasgredendo il rigido codice di abbigliamento imposto nella Repubblica islamica, consapevoli di rischiare la vita e – nella migliore delle ipotesi – multe severe. Ora, però, la priorità per gli iraniani è scongiurare la guerra contro Israele.

La mobilitazione nata nel nome di Mahsa Amini ha visto prendere parola e posizione, accanto alle donne, tanti giovani maschi iraniani. Quanto è rivoluzionaria tale novità, non solo per l’Iran?
Nel movimento donna vita libertà le prime a scendere in strada a protestare sono state le donne. E, per la prima volta nella storia dell’Iran, gli uomini sono stati al loro fianco. Detto questo, è da fine Ottocento che le iraniane – inizialmente appartenenti a una élite – fanno sentire la loro voce, il loro dissenso.

Il velo ha un significato politico e simbolico fortissimo. Quale la portata storico-culturale dell’obbligo del velo in Iran?
Il velo è un simbolo e, ovviamente, un modo per esercitare potere sul corpo delle donne. Nel 1936 Reza Shah Pahlavi lo aveva vietato e, di conseguenza, i gendarmi pattugliavano le strade dell’Iran con l’obiettivo di strapparlo alle donne che osavano portarlo comunque. Vietando il velo, l’obiettivo del sovrano era dare l’impressione di un paese moderno. Detto questo, non aveva nemmeno ipotizzato di mettere fuori legge la poligamia. Nel 1941, quando Reza Shah viene esiliato dagli inglesi, le iraniane potevano decidere se indossare o meno il velo. A metterlo erano quasi tutte le donne, soprattutto in ambito rurale e tra i ceti popolari e tradizionali. Facevano eccezione, negli anni Sessanta e Settanta, le figlie della borghesia cittadina. Nel 1979, con la rivoluzione, a prendere il potere era stato l’Ayatollah Khomeini. Era stato lui, il fondatore della Repubblica islamica, a imporre il foulard che copre i capelli nei luoghi pubblici.

Non meno importante è la simbologia dei capelli. Può portarci degli esempi?
Per quanto riguarda i capelli, in molte parti dell’Iran tagliare i capelli di una donna è una forma di punizione. Tra i curdi, quando una donna supera i confini della modestia e quindi travalica il sistema patriarcale, viene minacciata e insultata, si dice all’uomo di casa: “Dovresti tagliarle i capelli!”. Nell’area di Kerman, l’appellativo gisborideh (gis vuol dire treccia, borideh tagliata) significa “disonorata” e si usa per indicare la donna che ha commesso un reato. E infatti il taglio della treccia era una delle punizioni per l’adulterio. La donna che si taglia i capelli da sola è considerata indecente e dà scandalo, si ribella alle regole del patriarcato e rivendica il diritto di decidere da sé.

Quale modello di liberazione, non solo femminile, è alla base della manifestazione che poco più di un anno fa, a Teheran, ha riempito piazza Azadî (“azadî” in persiano significa libertà, nda)?
Nelle manifestazioni di quest’ultimo anno le iraniane e gli iraniani sono andati ben oltre il velo. Hanno reclamato maggiori diritti e molti hanno scandito slogan contro il leader supremo e contro la dittatura di regime.

La libertà, voce dell’alterità, è il nemico primo dei regimi. Come la verità, si nega coprendola, violentandola. La violenza odia la libertà, odia il pensiero creativo. Tema di questa edizione di “dialoghi” è stato “Resistenze e bellezza”: quanta resistenza culturale, poetica, serve contro la subcultura della discriminazione e dell’odio?
In questi decenni le iraniane e gli iraniani hanno fatto dell’arte una forma di resilienza e di resistenza culturale. Penso al cinema iraniano, ma anche alla letteratura femminile.
Alcuni romanzi sono riusciti a sfuggire, miracolosamente, alla scure del censore. Penso, per esempio, al titolo “Non ti preoccupare” di Mahsa Mohebali, residente a Teheran, per l’editore Ponte33. Una storia di cui è protagonista una giovane tossicodipendente in astinenza da oppio. Ascolta musica vietata in Iran e, nel bel mezzo di un terremoto, ha come solo obiettivo trovare una dose di droga.

Annarita Cecchin