Una questione di assenso e di amore
29 Marzo 2024
Nella mattinata del Giovedì Santo, 28 marzo 2024, l’arcivescovo Carlo ha presieduto nella basilica di Aquileia la Messa Crismale. Pubblichiamo di seguito la sua omelia.
La missione di Gesù, che egli ha inaugurato con il discorso nella sinagoga di Nazareth, viene affidata anche a ciascuno di noi. A noi che siamo ben consapevoli dei nostri limiti, delle nostre pigrizie, delle nostre resistenze e anche dei nostri peccati. Eppure siamo qui e desideriamo rinnovare le stesse promesse che abbiamo pronunciato, ormai per la maggior parte di noi, diversi anni fa, forse non con lo stesso entusiasmo e la commozione di allora, ma con maggior consapevolezza e maggior convinzione.
Vorrei soffermarmi con voi, quest’oggi, proprio su questa maggior consapevolezza e maggior convinzione, celebrando la Messa crismale in questa splendida basilica dove quasi tutti siete stati ordinati e dove, ormai dodici anni fa, anch’io ho iniziato il mio ministero di arcivescovo nella diocesi di Gorizia. Penso di farlo riproponendo la distinzione che il card. Newman presentanella poderosa opera della sua maturità, “La grammatica dell’assenso”, tra l’assenso nozionale e l’assenso reale. Vi dedica un intero capitolo, il quarto, ovviamente argomentando in dialogo con la cultura inglese del tempo. Riprendo da lui due esempi per spiegare la differenza tra i due tipi di assenso.
Il primo fa riferimento alla letteratura. Scrive: «consideriamo la diversità con la quale vengono toccati dalle parole di qualcuno dei classici, come Omero oppure Orazio, i giovani e i vecchi. Certi passi, che per il ragazzo non sono altro che luoghi comuni della retorica […] alla fine gli tornano in mente dopo molti anni, quando ha fatto esperienza della vita, trafiggendolo, come se non li avesse mai incontrati prima, con quella seriosità così malinconica, vivida e precisa che è solo di loro» (John Henry Newman, Grammatica dell’assenso, Milano 2005, p. 62). Così Newman. E non è forse proprio quello che anche noi proviamo quando, per esempio e penso e spero sia l’esperienza di molti, da adulti rileggiamo la Divina Commedia o i Promessi sposi o riaffiorano nella mente e nel cuore versi di poesie mandati un po’ meccanicamente un tempo a memoria, ma ora diventati preziosi come gemme.
Un secondo esempio è invece tipicamente religioso. Scrive il card. Newman, con un’evidente ironia inglese, riferendosi a un “predicatore popolare di grido”: «Per il nostro predicatore le verità più profonde e solenni sono solo idee, idee sublimi, se vogliamo, oppure belle, da citare e da usare, a proposito e a sproposito, per le finalità che costui si propone, quando c’è da infiocchettare lo stile o da dare il tocco finale ad effetto. Ma se appena il cuore glielo scava e lacera un dolore lancinante o un’angoscia profonda, ecco che la Scrittura gli appare all’improvviso come un libro nuovo di zecca. E questo è il cambiamento che si verifica così spesso in quella che si chiama conversione religiosa, un cambiamento che è decisamente per il meglio, a dispetto delle debolezze e degli errori che alla conversione stessa possono accompagnarsi» (Ibid., p. 63).
Da questi esempi del grande cardinale inglese dovrebbe essere chiara la differenza tra l’assenso nozionale e quello reale ed emergono anche due situazioni che possono far passare dall’uno all’altro, cioè l’esperienza della vita e il confronto con il dolore. Aggiungo subito una considerazione che penso sia per tutti ovvia: non è detto che necessariamente l’esperienza della vita porti a un assenso reale, soprattutto in termini di fede, e altrettanto si può dire della prova del dolore. Le cose non sono così automatiche.
Pensando alla nostra esperienza di preti (e la cosa vale anche per i diaconi perché tutto ciò che qui enuncerò riferendomi ai presbiteri può essere attribuito anche ai diaconi), vorrei offrire alcuni spunti di riflessione in riferimento specificamente all’assenso reale di fede, che potrete riprendere a livello personale o negli incontri con confratelli. E preciserei questo tipo di assenso riferendolo non anzitutto alle verità di fede e neppure alla Scrittura, ma alla persona di Gesù. La questione diventa pertanto se il nostro rapporto con Gesù è teorico, astratto, intellettuale o è – permettetemi il gioco di parole – veramente reale.
Riflettendo su questo nei giorni scorsi, mi sono venuti in mente molti aspetti che meriterebbero essere affrontati, ma non voglio fare qui un trattato e preferisco lasciare a voi la domanda su che cosa favorisca o che cosa al contrario ostacoli in noi un assenso reale di fede, inteso come il rapporto personale e autentico con Gesù. Una relazione da vivere ovviamente nella nostra particolare vocazione, perché se la vocazione è autentica, in un certo senso fede e vocazione si sovrappongono. La questione allora può essere formulata anche in riferimento a che cosa favorisca o che cosa ostacoli l’appropriazione personale della nostra vocazione di presbiteri.
Mi limito allora a solo due punti. Anzitutto vi propongo un interrogativo che ritengo importante: quali sono le situazioni nella vita di un prete, che evidenziano l’insufficienza di un assenso nozionale e chiedono o, meglio, chiederebbero – perché appunto la cosa non è automatica – il passaggio a un assenso reale? Vorrei solo elencare cinque precise circostanze, che mi sembrano molto comuni e con le quali tutti, prima o poi, dobbiamo confrontarci: il cambiamento di incarico, la delusione per il non avverarsi di un’aspettativa della propria valorizzazione, il lutto per la morte di persone care, la malattia soprattutto se grave e con una prognosi incerta, il forte coinvolgimento affettivo con una persona. In tutti questi casi, la propria vocazione, la propria fede, il proprio rapporto personale con Gesù vengono messi in crisi. Ma proprio per questo sono occasioni preziose, anche se dure e faticose, per maturare un vero assenso reale (ma l’esito, come ricordavo, potrebbe essere anche la perdita persino dello stesso assenso teorico).
Vorrei, infine, proporvi un secondo spunto di riflessione toccando un aspetto che forse trascuriamo, ma che può essere decisivo per crescere nel nostro rapporto con Gesù, concreto e autentico. Noi per mestiere – se permettete l’espressione – siamo persone chiamate a usare molto la testa e la parola. Dobbiamo sapere e pensare molto su Gesù e sulle varie tematiche della fede e dobbiamo parlarne molto. È intuibile che ciò ci fa certamente conoscere Gesù in teoria, ma amplifica di molto l’aspetto nozionale o per lo meno intellettuale. Il suggerimento potrebbe essere allora quello di non trascurare la testa, ma di recuperare la dimensione del cuore, anzi, sarei più esplicito, la dimensione dell’affetto. Se l’amore che proviamo per Gesù non è un amore affettuoso, significa che siamo ancora lontani dall’assenso reale. Non voglio suggerire di indulgere al sentimentalismo, di lasciarci prendere in modo esagerato dalle emozioni, ma vorrei invitare a un amore affettuoso verso Gesù che sia simile a quello di due persone che si amano provando e manifestando affetto l’una per l’altra. Proprio dall’amore umano possiamo prendere degli spunti per amare affettuosamente Gesù. Ne suggerisco quattro: la sorpresa, la complicità, l’eccesso, la commozione.
La sorpresa. Penso che a tutti noi faccia piacere quando una persona che ci vuole bene ci “sorprende” con qualcosa di inaspettato: una visita, un apprezzamento, un regalo. Non dovrebbe essere lo stesso con Gesù? Regalargli qualcosa che vada al di fuori della routine, che Lui non si aspetta: una preghiera particolare, un pellegrinaggio personale, una notte in preghiera, un gesto di amore fatto nel suo nome.
La complicità o forse si potrebbe meglio dire la riservatezza, l’esclusività di un rapporto, quell’essere nel segreto solo con Lui (e con il Padre, che ci assicura il Vangelo di Matteo, vede nel segreto). Qualcosa che solo io e Lui conosciamo e che è solo nostra e di nessun altro.
L’eccesso. Quando si ama non si può non esagerare almeno qualche volta. E la cosa si collega con la sorpresa e la riservatezza, perché le esagerazioni sono spesso inaspettate e devono restare solo tra noi due.
Infine la commozione. Essa si esprime soprattutto nel dono grande delle lacrime, ma anche del canto e della poesia. Mi sembrerebbe strano che un prete non si commovesse almeno qualche volta fino alle lacrime di gioia per il Signore, che non cantasse mai per Lui, che non gli avesse mai scritto una poesia, che non fosse scoppiato in pianto per i propri peccati e fallimenti.
Concludo tornando alla missione che è il senso della nostra vocazione e della nostra vita semplicemente per fare una costatazione ovvia: cambia tutto se annunci delle verità, dei valori, delle idee o se parli di una persona cui sei legato da un amore pieno di affetto, che si rivela nel tuo amore verso le persone che incontri. Come scriveva sant’Agostino nel Commento al Vangelo di san Giovanni, parlando del miracolo del paralitico (e noi tutti siamo un po’ paralitici nell’amore): «amando il prossimo e interessandoti di lui, tu camminerai. Quale cammino farai, se non quello che conduce al Signore Iddio, a colui che dobbiamo amare con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la mente? Al Signore non siamo ancora arrivati, ma il prossimo lo abbiamo sempre con noi. Porta dunque colui assieme al quale cammini, per giungere a Colui con il quale desideri rimanere per sempre» (Sant’Agostino, Commento al Vangelo di San Giovanni, 17, 9: https://www.augustinus.it/italiano/commento_vsg/omelia_017.htm).
+ vescovo Carlo
(foto Sergio Marini)
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