Italiani, stranieri: alunni sempre
3 Aprile 2024
Se si è d’accordo che gli stranieri si assimilino sui valori fondamentali iscritti nella Costituzione ciò avverrà più facilmente se nelle classi la maggioranza sarà di italiani, se studieranno in modo potenziato l’italiano laddove già non lo conoscano bene, se nelle scuole si insegni approfonditamente la storia, la letteratura, l’arte, la musica italiana, se i genitori saranno coinvolti pure loro nell’apprendimento della lingua e della cultura italiana e se non vivranno in comunità separate. È in questa direzione che noi intendiamo muoverci”.
Le affermazioni sono del ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara che immaginiamo animato dalle migliori intenzioni, cioè quelle di rendere la scuola pubblica un reale luogo di apprendimento e di inclusione, dove si sperimentano e si mettono alla prova le capacità delle giovani generazioni e si realizza quel “miracolo” che è la crescita personale e sociale degli allievi. Un “miracolo” favorito sia dalla trasmissione – nel processo di insegnamento/apprendimento – di conoscenze e competenze in grado di promuovere autentica cultura (e responsabilità insieme), sia dal confronto quotidiano, dalla “mescolanza” e interazione tra persone diverse: alunni tra di loro (con provenienze le più disparate: non necessariamente legate alla nazionalità, basti pensare ad esempio alle differenze sociali) e soprattutto giovani e adulti, in una dinamica allo stesso tempo complessa e affascinante.
Viene però da fare qualche riflessione. La prima sullo stesso concetto di “stranieri”. Non è scontata e lo si capisce pensando al problema della nazionalità per quanti, provenienti da famiglie immigrate, sono tuttavia nati in Italia e qui crescono e si inseriscono.
Stranieri? Italiani?
Lasciamo aperta la questione, che implica riflessioni e trascina con sé polemiche infinite e andiamo a vedere un altro nodo da sciogliere.
Quanti “stranieri” nelle classi scolastiche? Il 20% grida Salvini. Il 30% stabilisce già un orientamento proposto già dall’anno 2010 dall’allora ministra Maria Stella Gelmini.
La realtà però è tutt’altra cosa. In Lombardia le scuole con percentuali di studenti superiori al 30% sono oltre il 10%.
E se ci si limita alla sola provincia di Milano – quella, per intenderci, dove si trova la scuola di Pioltello che in queste settimane, con la decisione del giorno di festa in occasione della fine del Ramadan ha suscitato un polverone – gli istituti con una percentuale di stranieri ben più alta di quella stabilita sono addirittura una su cinque. Sempre per restare a Pioltello, l’istituto sotto i riflettori avrebbe il 43% di “stranieri”.
E allora come si fa? Trasferiamo la popolazione “straniera” da un posto all’altro? O magari avviamo una politica tesa a fare più figli “italiani” (ed è certo che la questione demografica rappresenta un problema serio)? O spieghiamo a quelle famiglie italianissime che non è il caso di spostare i loro figli in scuole dove pensano di trovare classi più omogenee. È, questo, il fenomeno del “white flight”, denunciato già dal Politecnico di Milano in uno studio che evidenziava come famiglie italiane, abitanti in contesti a più alta densità di alunni “stranieri”, decidono di iscrivere i propri figli in scuole anche lontane da casa ma frequentate in maggioranza da connazionali.
Una soluzione semplice non esiste in realtà. Certo occorre cercare rimedi alle difficoltà (reali, certo), ma senza dimenticare che siamo di fronte, oggi, a una società sempre più “mescolata” e il fenomeno non è arrestabile, tantomeno con i proclami. Lo sanno bene proprio gli insegnanti, che in quelle scuole dove ogni giorno si misura la complessità si danno da fare avendo a cuore tutti gli allievi, italiani o “stranieri” che siano, mirando al benessere di ciascuno di loro. E, sia detto per inciso, alla costruzione di una società migliore.
Alberto Campoleoni
(foto archivio AgenSir)
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