Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia

Il 23 maggio, alle ore 17.58, a Palermo sono letti a voce alta i nomi delle vittime della strage mafiosa del 1992: il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo, magistrato, i tre agenti della scorta Rocco Dicillo, Antonio Montinaro, Vito Schifani. L’orologio della dottoressa Morvillo si era fermato al secondo fatale in cui il tratto dell’autostrada interessato dal passaggio del corteo blindato fu sventrato dall’esplosione di 500 chili di tritolo. Gli “angeli” della scorta morirono sul colpo. Giovanni e Francesca, ancora vivi quando i loro corpi vennero estratti dal groviglio di lamiere della Croma bianca, sarebbero deceduti in ospedale.
In sintonia profonda, Falcone e la moglie avevano combattuto la buona battaglia per una società migliore. Ebbero altissimo il senso dello Stato e del dovere.
Negli ambiti della giurisdizione in cui operarono, fecero la differenza, per preparazione e acume; eccezionale la capacità di lavoro, il rigore e la determinazione.
Nel 1986, quando si sposarono -in gran segreto, per motivi di sicurezza- Falcone era già Falcone, il giudice istruttore del pool antimafia inventore del rivoluzionario metodo investigativo a cui avrebbe dato il nome. Non meno innovativo per l’epoca si rivelò l’apporto di Morvillo nella giustizia minorile: laureatasi giovanissima in giurisprudenza, tra le prime donne magistrato, dal 1972 al 1988 ricoprì l’incarico di sostituto procuratore presso il Tribunale per i Minorenni di Palermo, che la vide attenta alla funzione rieducativa della pena, al reinserimento sociale dei giovanissimi adescati dalle cosche. Della riconosciuta competenza, congiunta alla fine sensibilità, sono testimonianza le centinaia di sentenze da lei depositate: l’esattezza scrupolosa nell’estensione si nutre della sapienza del cuore, che non dimentica la persona dietro l’imputato. Divenuta consigliere della Corte d’Appello, Morvillo fu componente del collegio giudicante nel processo sui grandi appalti di Palermo, conclusosi con la condanna in via definitiva, per associazione mafiosa e corruzione, dell’ex sindaco Vito Ciancimino, già assessore ai lavori pubblici negli anni dello scempio edilizio della città.
Costante era il confronto tra la giudice e il marito, il quale, istruendo il maxi-processo, aveva consegnato alla storia il “capolavoro di ingegneria penale” che decapitò i vertici di Cosa nostra: 19 ergastoli, oltre 2600 anni di reclusione inflitti in base alla sentenza di primo grado, confermata in Cassazione nel gennaio 1992.
Nel dipanare gli intrecci della criminalità organizzata con il potere politico ed economico, Falcone e Morvillo impiegarono le migliori energie intellettuali e qualità umane. Sobrietà e riserbo li connotavano.
Vissero uniti nella gioia, “rubata” ad una vita di rinunce, e nei dolori. Tra questi: il confinamento all’Asinara, disposto d’urgenza alla notizia di un attentato in preparazione contro Falcone, Borsellino e i familiari; la mancata nomina del giudice a capo dell’Ufficio istruzione quale successore naturale di Caponnetto; il fallito attentato all’Addaura, “opera di menti raffinatissime”; la delegittimazione di Falcone, isolato e calunniato; le polemiche dopo la sua nomina a direttore degli Affari penali del Ministero di Grazia e Giustizia, da dove continuò la lotta alla mafia. Giovanni e Francesca attraversarono insieme la croce, fino alla fine. “Un Giuda li tradì”, disse sconvolto Paolo Borsellino, prima di essere a sua volta assassinato. Le ombre sui mandanti esterni alla mafia si addensarono.
La speranza franò nel cratere di Capaci, schiantata sotto il muro di detriti alzato dall’esplosione.
All’indomani della barbarie, la rivolta civile rianimò la speranza.
I cittadini onesti pretesero con forza una risposta degna di uno Stato di diritto. L’eredità di Giovanni Falcone e Francesca Morvillo diede subito molto frutto, a partire dalle scelte di vita ispirate dal loro esempio di inossidabile spirito di servizio e di alto senso della giustizia, volano di futuro.

Annarita Cecchin

(Foto ANSA/SIR)