Una dimostrazione concreta dell’universalità della Chiesa

È stato un “arrivederci!” commosso quello rivolto a don Modeste Muragijimana, il sacerdote rwandese ospitato in questi anni dall’Unità pastorale “Bassa Friulana” e che ha da poco terminato il suo percorso di studi in Teologia pastorale a Padova.
In queste settimane, tutte le comunità dell’Unità Pastorale “Bassa Friulana” lo hanno salutato con affetto, facendogli sentire quanto sia stimato.
Domenica scorsa, a Cervignano del Friuli, don Modeste ha celebrato la sua ultima messa in Italia. Come sottolineato dal parroco don Sinuhe, la presenza di tanti sacerdoti al suo saluto è stata data una straordinaria dimostrazione dell’universalità della Chiesa Cattolica.
Insieme a don Modeste, hanno concelebrato sacerdoti provenienti da diverse parti del mondo: don David, don Désiré, don Africain, don Giuseppe, don Manuel, don Pierpaolo e don Giulio, direttore del Centro Missionario Diocesano.
Questa condivisione del sacerdozio ha evidenziato la ricchezza e la varietà delle comunità cristiane che si uniscono in un’unica fede.
Don Modeste ha iniziato la santa messa spiegando che gli sarebbe piaciuto prolungare la sua permanenza in Italia, ma la Provvidenza divina lo ha chiamato in una nuova parrocchia a Kibirizi, nella diocesi di Nyundo che aprirà il 21 settembre. Ha voluto ringraziare tutti per averlo accolto nella comunità con tanto affetto e per averlo sostenuto nel suo ministero ed ha espresso la sua profonda gratitudine all’arcivescovo Carlo, al Centro Missionario guidato da don Giulio ed alla sua squadra, al parroco, a tutti i sacerdoti dell’Unità Pastorale e ai confratelli.
Nella sua omelia, ha raccontato con commozione il difficile momento del suo arrivo, quando il COVID-19 imperversava nel mondo, seminando paura e lutto. Ha condiviso l’angoscia della madre, timorosa nel vederlo partire, ma anche la sua profonda convinzione di dover obbedire alla chiamata divina e mettersi a disposizione della Provvidenza. Si è soffermato poi sul sacramento del Battesimo, sottolineando che la Chiesa continuerà a vivere e a crescere finché ci saranno nuovi battezzati, finché le persone continueranno a credere in Gesù Cristo e a trasmettere il Suo messaggio d’amore. Ha rivolto un appello accorato ai giovani, riconoscendoli come il futuro della Chiesa e invitandoli a diventare testimoni appassionati della fede.
Al termine della celebrazione, i rappresentanti delle comunità di Cervignano del Friuli, Terzo di Aquileia e San Martino, Muscoli, Strassoldo e Scodovacca hanno espresso la loro profonda gratitudine per l’impegno profuso in questi anni. In segno di stima e affetto, gli sono stati offerti numerosi doni, tra cui un album con immagini e scritti dei fedeli che raccoglie momenti significativi della sua vita nella comunità della Bassa Friulana.
Abbiamo incontrato don Modeste a poche ore dalla sua partenza per cercare di farci raccontare alcuni momenti di quanto vissuto in questi anni nella Bassa Friulana.

Ti appresti a rientrare in Rwanda per iniziare una nuova tappa del tuo ministero pastorale. Gli anni trascorsi in Italia, a Cervignano del Friuli e a Padova, come hanno influenzato la tua crescita spirituale? Quali esperienze porterai con te in questo nuovo capitolo della tua vita?

Gli anni trascorsi in Italia hanno inciso davvero nella mia crescita umana, intellettuale e spirituale.
Quando entri in contatto con una nuova cultura, quando incontri nuove personae, la tua crescita umana non può che esserne profondamente segnata.
Sono giunto in Italia dal Rwanda, un Paese dell’Africa centrale dove la popolazione è molto giovane (il 65% degli abitanti ha meno di 35 anni) ma che deve ogni giorno fare il conto con davvero tanti problemi: le ferite nei cuori di tante persone, le ferite nelle famiglie, la povertà, la mancanza di lavoro per tanti giovani…
Sono entrato a contatto con un popolo come quello italiano la cui maggioranza non è certamente rappresentata dai giovani ma da uomini e donne di una certa età: però proprio loro hanno voluto condividere con me la loro ricca esperienza ed ho cercato di approfittarne.
Abbiamo spesso discusso sui problemi del mondo e su quelli del mio Paese: mi sono molto commosso nel trovare tanta voglia di aiutare gli altri a stare bene.
In tanti, anche in questi giorni, mi hanno ripetuto: “Don, quando arriverai nel tuo Paese e avrai bisogno di aiutare la tua gente, scrivimi, mandami un messaggio e cercherò di aiutarti!”.
Entrare in contatto con persone diverse ti fa crescere umanamente!
Per la crescita intelettuale, ho frequentato la Facoltà teologica del Triveneto a Padova, ottenendo la specializzazione in Teologia Pastorale.
Parlando alla Curia romana, per definire il tempo che stiamo vivendo, papa Francesco ha usato l’espressione: “cambiamento d’epoca”. Nella sua azione pastorale la Chiesa deve prendere sul serio questa affermazione: il cambiamento chiede conversione, disponibilità al cambio di mentalità ed al lasciarsi interpellare dalla storia.
Il “cambiamento d’epoca” esige una nuova prospettiva.
La Teologia Pastorale mi ha aiutato a maturare la riflessione su come la Chiesa universale – ed anche la mia Chiesa in Rwanda – debbano ripensare la propria azione pastorale per rendere sempre più efficace la propria missione.
Tu mi chiedevi delle esperienze vissute.
Sono arrivato quando la pandemia di Covid-19 incideva ancora pesantemente sulla quotidianità delle persone. Ho potuto constatare che ciascuno voleva proteggersi per proteggere allo stesso tempo anche il proprio vicino, il proprio fratello, la propria sorella: lì ho capito che siamo tutti sulla stessa barca, come ci ha ricordato il Papa e quindi dobbiamo aiutarci a vicenda.
Mi è capitato spesso di passare, poi, per il Centro di ascolto della Caritas di Cervignano e sono rimasto sempre colpito dal modo di porsi dei volontari: ascoltavano le persone bisognose, nel rispetto della dignità di ognuno, impe- gnandosi ad accompagnare ogni uomo e donna che bussava a quella porta affinché potessero uscire dai loro problemi di povertà, diventando autonomi nella loro vita.

Il rientro in Rwanda dall’Italia ti obbligherà ad un riadattamento ad un contesto culturale e sociale differenti da quelli in cui hai vissuto negli ultimi anni. Come affronterai un cambiamento così radicale?

È vero che il passaggio dall’Italia al Rwanda richiede un cambiamento radicale ma quella è la mia terra, il Paese dove sono nato, sono cresciuto, ho maturato la mia vocazione.
Sono sicuro che non ci saranno quelle difficoltà di ri-adattamento che potrebbe invece avere chi non fosse nato e cresciuto in Rwanda e che si troverebbe a dover imparare una lingua come il Kinyarwanda, scoprendo allo stesso tempo che non esistono ferrovie, autostrade e che i sapori della cucina sono profondamente diversi.
Ma troverebbe gente accogliente e conviviale!

Come sei stato accolto nelle varie comunità che costituiscono l’Unità pastorale “Bassa Friulana”?

L’accoglienza è stata davvero ottima! Sono arrivato, come accennavo prima, nel tempo della pandemia da Covid-19 quando non c’era molta possibilità di incontrarsi, di interagire.
Piano piano, però, ci siamo conosciuti, aiutati a vicenda, affezionati ed in questo davvero importante è stato l’aiuto di tutti i sacerdoti che svolgono il loro ministero nell’Unità pastorale.
Mi ha positivamente sorpreso scoprire che ogni comunità ha mantenuto la propria originalità.
Comunità geograficamente vicine come Muscoli e Strassoldo, ad esempio, hanno un’identità profondamente diversa che non diviene però ostacolo nel lavoro fatto insieme.

Cosa ha portato la tua presenza alle comunità dell’Unità pastorale?

Secondo me nient’altro che l’opportunità di poter incontrare e conoscere un sacerdote proveniente da un Paese lontano che quando il tempo lo permetteva si metteva in ascolto di loro, per condividere con loro la vita e la fede.

Ci racconti un ricordo di questi anni che porterai sempre con te?

I ricordi sono davvero tanti a partire da un momento speciale vissuto proprio al mio arrivo in diocesi. Finita la quarantena imposta dalla pandemia all’arrivo in Italia, insieme ad un confratello che si trovava nella mia stessa condizione, siamo andati a Gorizia per presentarci all’arcivescovo Carlo.
Lui ci ha accolti e ci ha offerto un caffè che ha preparato personalmente per noi nella sua cucina: era la prima volta che vedevo un vescovo in cucina e quella sua semplicità mi ha davvero commosso!

In Italia hai sperimentato metodi di evangelizzazione, catechesi ed animazione giovanili probabilmente molto diversi da quelli che avevi vissuto in Rwanda…

Non posso dire di avere “sperimentato” veramente metodi di evangelizzazione, catechesi o animazione giovanile perchè l’uso di questo verbo dovrebbe presupporre un mio impegno in prima persona in questo settore che non c’è stato.
Diciamo, piuttosto, che ho potuto osservare molto da vicino questa realtà!
Certamente i giovani della Bassa Friulana sono più fortunati dei loro coetanei rwandesi: dispongono di strutture quali il Ricreatorio o il Rikstoro dove possono stare insieme, studiare, fare i compiti, giocare, pregare, assaporare il gusto della vita! Possono, poi, visitare insieme le grandi chiese, i santuari i musei vivendo momenti di arricchimento culturale, intellettuale e spirituale.
Ho visto giovani coinvolti in prima persona nelle scelte che li riguardano.
Pensare di adattare quello che si fa in Italia all’esperienza pastorale della Chiesa in Rwanda sarebbe un errore.
La mia Chiesa d’origine il prossimo anno celebrerà i 125 dalla sua prima evangelizzazione: pur rimanendo una realtà con mezzi finanziari limitati è comunque vicina aila sua gioventù ed è impegnata ad ascoltarla, accompagnarla, farla crescere utilizzando il metodo sinodale anche nell’ordinarietà della propria pastorale.

Livio Nonis