“Il maestro che promise il mare”

dopo il grande successo in Spagna, è arrivato nelle sale italiane il bel film “Il maestro che promise il mare”, diretto da Patricia Font e tratto dalla storia vera del maestro elementare catalano Antoni Benaiges. Nel 1935 Benaiges fu assegnato alla scuola di Bañuelos de Bureba, remoto villaggio della provincia di Burgos, dove da subito si fece amare dagli alunni, ma per i metodi pedagogici innovativi e per l’impegno come attivista politico finì vittima della repressione franchista.
Nel film si intrecciano due piani temporali e narrativi: il passato di un’esperienza scolastica e umana esemplare, per la dedizione e la coerenza del maestro, e il presente angoscioso di Ariana, una giovane che, nel 2010, cercando la verità sul bisnonno, gettato in una fossa comune, si ritrova sui passi di Benaiges, che ebbe come alunno il nonno della ragazza e fu in carcere con il padre di quest’ultimo.
Memoria, resistenza, poesia tramano un film che parla all’oggi, in cui registriamo la perdita del senso storico, l’involuzione ideologica autoritaria, la crisi della scuola. Già, la scuola, sempre più burocratizzata e imbrigliata, che malgrado tutto, giorno dopo giorno getta semi di futuro, perché agli insegnanti non è dato concedersi – lo disse il grande linguista Luca Serianni – “il lusso del pessimismo”. Poverissima di mezzi, la scuola di Benaiges non conosceva la didattica per competenze, in cui tutto si pianifica, dichiara e certifica. Quanto calore riempiva l’aula di Bañuelos, quanta magia avvolgeva la macchina per la stampa, che permise agli alunni di pubblicare i quaderni con i loro sogni impressi sulla carta. Tra questi, il sogno del mare, che i bambini non avevano mai visto e iniziarono ad immaginare. Dello stupore non si aveva un’idea ingenua: lo si considerava una formidabile fonte di conoscenza. La regia di Font si tiene lontana dalla retorica, che è il rischio dei film imperniati su figure carismatiche, eroiche senza volerlo. Benaiges (il perfetto Enric Auquer), che gli alunni seguirebbero in capo al mondo, ci viene raccontato con garbo e verità di tratto.
L’ascolto e la valorizzazione della spontaneità infantile fondano un approccio didattico che prende sul serio gli scolari, inducendoli a mettersi totalmente in gioco. Prima destinatari di un insegnamento dogmatico, grazie a Benaiges essi recuperano la naturalezza, scoprendo il piacere di apprendere perché rispettati, amati, incoraggiati a tirare fuori la loro voce. Scuola di humanitas, che difende il pensiero libero e perciò viene temuta dal pensiero unico. Scuola dove l’identità non si impone calandola dall’alto, ma si scopre attraverso pratiche partecipate. Scuola della parola, che ad ogni lezione fa sorgere qualcosa di nuovo, alto di profondità, senza bisogno di obiettivi da enumerare e misurare secondo una logica funzionalistica.
Benaiges aveva il coraggio di aprire al “fuori programma” trascinando nell’avventura conoscitiva che fa vivere il mare prima di vederlo, gonfiando le vele della dimensione emotiva ed intellettuale. In lui i bambini videro all’opera la passione che crea comunione, lotta contro ogni forma di oppressione e lascia ai figli d’anima la responsabilità di illuminare il mondo di bellezza e giustizia, ciascuno con il proprio fuoco.

Annarita Cecchin

(foto mymovies.it)