Povertà educativa: rischio di esclusione dalla partecipazione democratica
14 Novembre 2024
La partecipazione democratica, ha detto Papa Francesco, è frutto dell’educazione e della formazione: “va allenata”. L’incremento della povertà educativa tra i ragazzi comporterà il rischio che molte fette della popolazione vengano escluse dalla nostra società: non solo dal mercato, ma anche dalla partecipazione democratica e dalla vita culturale?
Povertà educativa è un concetto relativamente recente, introdotto da alcuni sociologi ed economisti negli anni ’90, senza una definizione univoca e un set specifico di indicatori per misurarla. Solo nel 2023 l’Istat ha istituito una Commissione scientifica interistituzionale per definirla e misurarla. Nonostante la ricchezza di strumenti e dati disponibili, sono emerse carenze informative soprattutto per quanto concerne le competenze non cognitive, la fascia di età 0-5 anni, la possibilità di arrivare a un dettaglio territoriale inferiore a quello regionale. Il lavoro per integrare gli indicatori carenti è già in atto e si prevede che entro la fine di quest’anno si arriverà a un set definitivo di indicatori, al fine di individuare le aree prioritarie verso cui indirizzare investimenti e interventi.
Il quadro concettuale per misurare la povertà educativa contempla i seguenti aspetti:
– Risorse, che comprendono i vari contesti di vita della popolazione 0-19 anni: familiare; scolastico; territoriale, sociale e culturale.
– Esiti, in termini di competenze cognitive e non cognitive (sono stati inseriti indicatori relativi a problem solving, pensiero critico e fiducia in sé stessi).
Tra la povertà assoluta, che nel 2023, con livelli mai toccati prima, riguarda quasi il 9,8% della popolazione, pari a 5.752.000 persone, e la povertà educativa esiste un rapporto di influenza reciproca, che determina un circolo vizioso: una situazione di deprivazione economica delle famiglie spesso causa povertà educativa, con bassi livelli di istruzione e competenze carenti dei figli; a sua volta la povertà educativa si traduce in difficoltà di accesso al mondo del lavoro e marginalità sociale. Negli ultimi anni i divari generazionali sono aumentati a scapito delle classi di età più giovani: secondo l’Istat, nel 2023 erano 1.300.000 i minorenni in povertà assoluta in Italia, con un’incidenza del 14% vs il 6,2% dai 65 anni in su.
Le prime indagini esplorative ISTAT evidenziano una mappa molto variegata di risorse ed esiti nelle diverse aree italiane. Come già noto, per quanto riguarda le risorse, “Al Centro-Nord la situazione è complessivamente migliore”, pur essendo presenti anche qui territori non urbanizzati con indicatori più bassi della media nazionale, ma “Fa eccezione il Friuli-Venezia Giulia, dove, sempre rispetto alla media nazionale, si osserva una bassa carenza di risorse in tutto il territorio regionale, indipendentemente dal grado di urbanizzazione dei Comuni”. Su vari esiti, la nostra regione presenta indicatori mediamente positivi: ad es., nel 2023 il tasso di abbandono scolastico era del 6,6%, inferiore alla media italiana del 10,5%, ma la CGIA di Mestre ci informa che in regione 5.000 giovani tra 18 e 24 anni hanno abbandonato prematuramente gli studi, fermandosi alla terza media, situazione che li renderà marginali in un mercato del lavoro che richiede competenze sempre più elevate.
Non solo le ricerche ma anche l’osservazione della realtà e il senso comune individuano una relazione tra povertà educativa e rischio di mancata partecipazione alla vita democratica e culturale del Paese. I dati sulla popolazione da 14 anni in su mostrano che l’interesse ai temi politici decresce in modo evidente e continuo in rapporto al titolo di studio: massimo nei laureati, minimo in chi ha solo la licenza elementare. Sia un basso titolo di istruzione sia quella che viene definita dispersione implicita (studenti che al termine del percorso non raggiungono le competenze fondamentali previste) espongono al rischio di non comprendere un testo, di essere vittima di fake news, di non avere criteri autonomi di valutazione della realtà. La ricerca condotta quest’anno dall’Istituto Toniolo su “Gio
vani, democrazia e partecipazione politica” rileva che “La grande maggioranza degli intervistati (18-34 anni) pensa, in ogni caso, che la politica italiana attuale lasci i giovani ai margini (sia sul versante passivo delle misure rivolte ad essi sia su quello attivo del coinvolgimento nell’azione pubblica), il che mantiene basso l’interesse delle nuove generazioni verso la vita pubblica e indebolisce l’impegno a informarsi e partecipare”. Oltre 1 giovane su 4 ritiene che impegnarsi non serva ed è del tutto sfiduciato sul fatto che la politica possa essere utile per la sua vita e per quella del Paese, ma anche qui si evidenzia che la fiducia nelle istituzioni decresce in modo significativo tra laurea, diploma e livelli inferiori: per il Presidente della Repubblica si va dal 61,8% dei laureati al 56,4% dei diplomati e al 46% di chi non ha un diploma. Un trend analogo riguarda anche la Chiesa cattolica: dal 40,1% al 30,7 e al 29,3. Se oltre il 60% degli intervistati pensa che attualmente non ci siano opportunità per i giovani di partecipare e agire in ambito politico, emerge anche che le forme dell’agire politico dei giovani sono cambiate: ben il 63,6% dichiara di seguire influencer in relazione a questioni politiche o di interesse pubblico, pur non concordando sempre con loro; le forme di partecipazione più comuni includono il boicottaggio di prodotti (69%), la firma di petizioni (62,9%) e in genere il confronto su temi politici online. Secondo i ricercatori, “Assistiamo ad un depotenziamento della capacità delle nuove generazioni di incidere nel dibattito pubblico sia per un fattore quantitativo, legato al fatto che sono numericamente sempre di meno, sia perché hanno difficoltà a far sentire la loro voce e poter così orientare il percorso del Paese con le loro idee, la loro forza, con la loro azione collettiva”.
Sembra che aldilà della povertà educativa si dovrebbe parlare di povertà della politica.
Il legame tra povertà educativa e partecipazione culturale è ancora più evidente.
Già grandi pedagogisti avevano rilevato come la povertà culturale, più ancora di quella economica, condizionasse pesantemente il futuro personale e sociale di bambini e adolescenti, proponendo un diverso modello di scuola per ridurre gli svantaggi. Don Milani scriveva: “è solo la lingua che fa eguali. Eguale è chi sa esprimersi e intende l’espressione altrui. Che sia ricco o povero importa meno. Basta che parli”. Dalla ricerca 2024 di Save the Children “DOMANI (IM)POSSIBILI” (con un capitolo a cura dell’Ufficio Studi di Caritas Italiana) su ragazzi tra 15 e 16 anni, emerge chiaramente il nesso tra deprivazione culturale di partenza e riduzione delle aspirazioni per il futuro: aspira agli studi universitari solo un terzo dei ragazzi che vivono in case con al massimo 10 libri vs il 76% di chi ha più di 100 libri; il 42,8% di chi ha una madre con bassi titoli di studio ritiene poco importante la prospettiva universitaria, mentre la quota scende al 20,3% nei figli di donne diplomate o laureate.
Come afferma Donatella Turri, che in Caritas italiana si occupa di povertà educativa e dispersione scolastica, la scuola da sola non è in grado di recuperare tutte le condizioni di svantaggio, serve un’autentica comunità educante “attraverso l’alleanza di studenti, famiglie, scuole, territorio e terzo settore, indispensabile per avviare efficaci azioni di contrasto della povertà educativa”.
Gabriella Burba, sociologa
(Foto Siciliani-Gennari/SIR)
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