…domani
16 Aprile 2020
Per risorgere bisogna prima accettare di morire. Per vivere la Pasqua si passa per la croce del Venerdì Santo. In questo periodo sono molti a descrivere la pandemia che ha colpito noi ed il mondo come una Quaresima, una veglia, una attesa. Il mondo, la società, la stessa Chiesa non saranno più come prima: è un ritornello che ormai pare convincere tutti. Ci si pone davanti una domanda: il “dopo” sarà meglio o peggio del “prima”? In questa specie di limbo in cui ci troviamo, noi credenti in Gesù Cristo, quale testimonianza ci prepariamo a dare? Nel piccolo della nostra famiglia, del nostro paese, della nostra città e nel grande dell’Italia, dell’Europa, del mondo. Un serio esame di coscienza sul nostro passato è premessa indispensabile per un progetto di vita nel futuro che è già iniziato oggi e porta velocemente al domani. Papa Francesco in queste ultime settimane ha più volte invitato a capire la vita cristiana come servizio, a ricordare che il giudizio su di noi sarà dato, alla fine, sulla misura del nostro aiuto al povero che Gesù stesso ha indicato come affamato, assetato, incarcerato, ammalato. Negli ultimi decenni abbiamo visto le nostre comunità alla ricerca del rapporto con Dio lungo percorsi, per lo più, intimi, impegnativi, personali su strade spirituali volte alla dimensione dell’alto, del cielo. Una dimensione intima nella quale seguire i precetti e la dottrina ci dava sicurezza. Un percorso nel quale il prossimo poteva essere il vicino di banco in chiesa, ma già uscendo il povero che tendeva la mano era meno prossimo e un po’ infastidiva. I riti, espressione storica e sostegno della vita di fede, hanno rischiato di essere il fine e non un mezzo per far crescere la stessa fede. Ci siamo impegnati anche nella carità, nell’aiuto al prossimo; abbiamo ’modernizzato’ la nostra capacità di sostenere chi ha più bisogno, abbiamo sentito la solidarietà come una mano tesa ad aiutare i meno fortunati. E molte volte, proprio per questo, ci siamo sentiti a posto con la nostra coscienza. In questi stessi decenni però, abbiamo lasciato a pochi l’impegno a incarnare il Vangelo nella vita sociale, economica e politica. La società si è intrisa di obiettivi volti al successo personale o di gruppo, visto come possesso di soldi e di beni, spesso anche di persone. Il successo misurato dal possesso non è certo servizio e non apre alla solidarietà ma alla competizione, anche senza esclusione di colpi. La politica si è generalmente allontanata dalla realtà dei problemi dei cittadini e si è imbarbarita in una lotta perfino volgare per il potere. Intanto, le statistiche lo dicono, le chiese sono andate svuotandosi; è diminuita la partecipazione ai sacramenti; pochi nelle giovani generazioni guardano con interesse alla comunità cristiana. Talvolta, guardando ai partecipanti alle celebrazioni liturgiche nelle nostre chiese viene da chiedersi quanti saranno tra una decina di anni. Succede in Italia e succede anche a casa nostra. Questo tempo di chiese vuote per combattere “il virus” fa riflettere: che cosa abbiamo perso per strada? Quaranta, cinquanta anni fa, per non andare troppo lontano, abbiamo vissuto giorni difficili ma carichi di voglia di capire, vivere e fare, talvolta anche in modo confuso e contradditorio. I giovani cattolici cercavano esperienze di vita che traducessero nel concreto la fede di cui sentivano parlare. Volontariato, solidarietà con i disabili e i deboli, attenzione alla giustizia sociale, erano temi sui quali confrontarsi. Organizzazioni cristiane dei lavoratori e cristiani presenti nei sindacati si battevano per conquistare equità e giustizia sociale, ambienti e orari di lavoro umani. Si sentiva la voce degli uomini e delle donne che testimoniavano, nella laicità della vita politica, i principi sociali del cristianesimo. In Italia e anche a casa nostra. Che cosa è successo? Il benessere, oggi ci rendiamo conto di quanto effimero sia, ci ha addormentati? La logica del successo e del profitto è prevalsa anche nelle nostre coscienze? Abbiamo subìto e assorbito l’egoismo dei “benestanti”? Abbiamo accettato che accanto a noi crescessero le ingiustizie e le disuguaglianze. Ci siamo abituati alla presenza dei poveri tanto da non chiederci più perché ce ne siano tanti, visibili o nascosti. Abbiamo accettato un modello di società nel quale ’vince il più forte o il più furbo’, nel quale non c’è posto per il diverso: ci fa paura qualsiasi diversità.Questo disgraziato coronavirus ci ha isolati e ci fa pensare; ma dopo saremo di nuovo così? Una società di uomini e donne in competizione e in lotta per il successo e i soldi? Un benessere per pochi e la povertà per moltissimi? Una Chiesa per dare sicurezze in riti e dottrine? I partiti politici impegnati più a demolirsi sui ’social’ che nel servizio ai cittadini? Non ci sono ancora veri progetti sul futuro della società anche se è evidente che bisogna darsi da fare per trovare il “come” del cambiamento, ma i criteri e i valori per questa ricerca il credente li ha già: amore e servizio. Parole facili da pronunciare, ma proviamo a tradurle nelle relazioni tra le persone, nelle relazioni tra impresa e chi vi lavora, nelle relazioni tra il cittadino e le istituzioni, nelle relazioni tra i popoli, nella comunità dei credenti. C’è un grande campo di lavoro che si apre davanti a noi tutti per uscire da questa “quaresima” con una società migliore. Occorrono competenza, studi, passione e preghiera, ma teniamo d’occhio quel “Convertitevi e credete al Vangelo” che ci arriva ogni giorno per non dimenticare che dobbiamo scegliere: non si può servire Dio e il denaro.
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