Costa d’Avorio: uniti dal calcio ma ancora divisi dai brutti ricordi

Uniti dalla Coppa, divisi dalla vita quotidiana e dal ricordo del passato? È questo il dubbio che accompagna chi guarda alle vicende della Costa d’Avorio, la cui nazionale di calcio ha appena vinto la Coppa d’Africa, massima competizione continentale. Un trionfo atteso dal 1992 e celebrato da tutti, senza distinzioni: buon segno per il Paese che, tra 2002 e 2011, è stato attraversato a fasi alterne da divisioni degenerate in guerra civile. “Il calcio qui coinvolge tutti e c’è stato un crescendo di tifo dopo i primi risultati deludenti, anche la politica ne ha approfittato per fare campagna”, testimonia padre Dario Dozio, della Società delle Missioni Africane. E spiega: “Durante la festa, al momento dell’ingresso trionfale nello stadio, la coppa era tenuta in mano dal capitano della nazionale e dal presidente della Repubblica. Tutti hanno festeggiato, insomma, ma i problemi restano abbastanza gravi e chiunque ne è cosciente”.

Riconciliazione incompletaNessuno ha scordato, in effetti, le violenze post-elettorali del 2010-2011, quando le fazioni che sostenevano rispettivamente il presidente uscente Laurent Gbagbo e il vincitore internazionalmente riconosciuto del voto, Alassane Ouattara, trasformarono di nuovo la capitale economica Abidjan in un campo di battaglia. Anche truppe dell’Onu e soldati francesi presero parte agli scontri, che si conclusero con l’arresto di Gbagbo, oggi sotto processo all’Aja, insieme ad alcuni dei suoi seguaci più stretti. La stessa Federazione internazionale dei diritti dell’uomo ha però definito “insufficienti i progressi giudiziari contro coloro che si sono resi responsabili di violazioni gravi” durante l’ultima crisi, che provocò circa 3mila morti. A far aumentare le preoccupazioni è anche il fatto che quest’anno i cittadini torneranno al voto per decidere se confermare o no Ouattara. “I candidati – ammette padre Dozio – non verranno votati tenendo presente il bene comune della nazione, ma seguendo le indicazioni ricevute dai capi locali. Qui ci si definisce ivoriani, certo, ma solo dopo aver specificato di provenire dall’una o dall’altra regione”.

Questioni aperteIn questo contesto s’inserisce l’appello a fine gennaio dai vescovi locali in una Lettera pastorale: “Dopo un decennio di crisi grave – vi si legge – che ha danneggiato la coesione sociale, eccoci arrivati al momento della riconciliazione e della ricostruzione del nostro paese su tutti i piani. Degli sforzi s’impongono anche per far sì che il nostro paese riannodi il filo della stabilità, della pace e del progresso”. Microcriminalità, bande armate ancora attive in alcune parti del paese, voglia di arricchimento facile, sono alcuni dei mali che i vescovi denunciano nel loro documento e che spesso hanno cause profonde. Un esempio è quello della questione terriera, citata dai presuli e anche da p. Dozio. “Spesso gli anziani hanno venduto le terre, lasciando senza nulla i giovani tornati dagli studi in città – racconta il missionario – mentre contadini stranieri, ad esempio del Mali o del Burkina Faso, arrivati come braccianti, ora si arricchiscono dopo aver creato le loro piantagioni” sui campi che hanno acquistato dai locali. Contribuisce ai contrasti anche il fatto che molti combattenti – l’Onu sostiene che saranno ancora 14mila in  giugno – non sono stati reintegrati nella vita civile: “Sono ragazzi che si erano arruolati per sete di guadagno ma molti non avevano un’istruzione, al punto di non saper né leggere né scrivere: ora, quindi, non possono essere inseriti nell’amministrazione statale”.