“Io, aquilano sismoleso”
8 Maggio 2015
Angelo De Nicola è una delle anime che ha raccontato, vivendolo in prima persona, il devastante terremoto de L’Aquila in quell’aprile del 2009. Un collega, giornalista professionista dal 1991, ha iniziato a collaborare a 15 anni con “Il Messaggero”, nella cui redazione aquilana ha svolto la sua trentennale esperienza.Angelo quella notte si trovava nella sua casa a L’Aquila e già dalle prime ore del mattino – nonostante l’angoscia, nonostante una città distrutta – riprendeva servizio nella sua redazione, per raccontare quello che stava succedendo, per aiutare anche lui la sua città e i suoi cittadini. Dal racconto di quei giorni è nato il libro “Il nostro terremoto”, quasi un diario per “fissare le emozioni. Le fortissime emozioni di quella maledetta notte ma anche dei tragici giorni successivi, quando lo sbandamento è stato più forte di quelle scosse a ripetizione dopo l’ululato dell’orco alle 3 e 32”. Lo abbiamo incontrato durante il convegno della Federazione Italiana dei Settimanali Cattolici, svolto proprio a L’Aquila, e da lui ci siamo fatti raccontare le “sensazioni” di quella lunga notte e, a distanza di sei anni, cosa rimane della sua città.
Angelo, sfogliando il tuo sito, quando presenti il tuo lavoro “Il nostro terremoto”, parli spesso di emozioni. Emozioni sicuramente amare. Quali sono- a distanza di sei anni- i tuoi ricordi di quei primissimi giorni? Una cosa che ha molto toccato tutti nel corso della nostra visita in città, è stato il silenzio e l’odore di calce e polvere. Quali quindi anche i tuoi ricordi “sensoriali” di quei giorni (certamente diversi da quelli provati da noi)?Ogni notte, prima di addormentarmi, il mio ultimo pensiero va a quella notte. Ed è un accavallarsi di ricordi, di rumori (quel rombo che si “ricaricava”), di odori (quello del gas che di attanagliava la gola), di colori (quello del sangue), di sensazioni (terrore, gioia, strazio, speranza). Tutte le notti. Sono un malato di terremoto. Lavoro, soffro, gioisco, parto, ritorno, spero, pago, impreco, faccio il tifo per l’Inter, vado allo stadio per vedere L’Aquila Calcio, mi arrabbio per le sconfitte dell’Italia di rugby al 6 Nazioni, vado a sciare e ogni tanto a prendere una pizza con gli amici, mi indigno spesso davanti alla Tv… una vita normale, come tanti, come prima. Sono tornato alla normalità (o quasi) di una bella casetta nella frazione di Pagliare di Sassa. Eppure non va. Sono malato dentro. Sono, come tantissimi aquilani, un “sismoleso”. Mia figlia Camilla, che il 6 aprile aveva 12 anni, ancora oggi che ne ha 18 dorme sempre con le calze infilate come se dovesse essere pronta a scappare, se dovesse servire, senza ferirsi i piedi su spine di macerie come accadde quella notte. Camilla non vuole che si chiuda la porta di casa a chiave, quella porta che quella maledetta notte non voleva saperne di aprirsi, compressa dalla mano dell’orco affamato di morte che ci ha lasciati vivi non senza prima divertirsi a guardarci negli occhi per interminabili minuti. Emozioni.
Durante il Convegno hai raccontato di aver preso servizio già dalle prime ore dopo la scossa, “perché era quello che io sapevo fare”. Quanto è stato importante per te raccontare quello che stava succedendo, mettere “nero su bianco” emozioni e cronaca?Il lavoro come dovere civico ma anche come terapia. Pur ferito- non gravemente: uno squarcio sul capo ed uno sul volto, un braccio ammostato- sotto un crollo nella mia abitazione, una volta curato e medicato all’ospedale di Pescara nel tardo pomeriggio di quel maledetto 6 aprile, ed una volta messa al sicuro la mia famiglia nella casetta delle vacanze a Francavilla al Mare, lì a due passi, ho ritenuto che la cosa più sensata da fare fosse quella di mettermi subito a disposizione della redazione del mio giornale, Il Messaggero, nel capoluogo adriatico, come penso debbano fare in questi casi i medici, gli ingegneri, gli operai, ecc. In quel momento, ho pensato, ognuno doveva fare quello che sapeva fare. Così, quella sera stessa, è nato il drammatico articolo che è, poi, diventato l’incipit del mio libro. Nei giorni successivi, mi sono tuffato nel lavoro per cercare di lenire le “ferite” dentro. E lavorare mi ha fatto bene: la depressione, in questi casi è dietro l’angolo.
Guardando ora la città, com’è cambiato il suo tessuto sociale? Oltre alla perdita della casa, del luogo di lavoro, con quali altri problemi hanno dovuto fare i conti gli aquilani?Quei ventidue maledetti secondi hanno distrutto, soprattutto, l’identità di un popolo, gli aquilani, da secoli abbarbicati più psicologicamente che economicamente (1.300 attività) e socialmente (12mila, sul totale di 70mila, residenti nel perimetro delle mura antiche), attorno al loro centro storico, ai suoi vicoli, ai suoi profumi, ai suoi silenzi, alle sue antiche pietre bianche di palazzi e chiese. Il sesto centro storico in Italia- e, dunque, al mondo- per numero di monumenti importanti. Quel centro storico non c’è più e difficilmente risorgerà in tempi brevi visto che, secondo le primissime stime, occorrono 300 milioni di euro soltanto per i 46 monumenti principali, i “gioielli” si direbbe, la cui lista non comprende, ad esempio, tantissime chiese e monasteri nè palazzi gentilizi che pullulano nel cuore della città. L’Aquila sarà ricostruita, ma se non dovesse rinascere il suo centro storico, che ne è l’acropoli, la madre di una città e di tutto un territorio, “L’Aquila non sarà”.
Una cosa che ci ha colpiti è stato rendersi conto che i ragazzi che ora hanno una decina di anni non hanno praticamente mai conosciuto la loro città… hai avuto modo di confrontarti con loro o con i loro genitori? Come vivono questo fattore?Gli studenti adolescenti sono stati decisivi, nell’immediato post sisma: sono stati loro che, scegliendo in maniera determinata di voler tornare a scuola all’Aquila in quel settembre del 2009, hanno portato lo stendardo del rientro delle loro famiglie in una città che rischiava, in quel momento di snodo, di restare fantasma. Se in quell’avvio di anno scolastico non si fosse fatto il “miracolo” di realizzare, in tempi record, i “Musp” (costruzioni scolastiche modulari provvisorie), oggi staremmo raccontando tutta un’altra storia visto che a sei anni dal 6 aprile nessuna delle tante scuole pubbliche danneggiate sono state riparate o ricostruite nè si vede l’avvio di un qualche progetto per avviarne il recupero Quei ragazzi che, invece, non erano nell’adolescenza, non hanno conosciuto L’Aquila, lo struscio sotto i Portici, gli odori, i sapori, la luce abbacinante del sole che si rifrange sui palazzi di pietra bianca. Pensano che L’Aquila sia il centro commerciale che, inevitabilmente, oggi frequentano per poter socializzare. Si salteranno intere generazioni di aquilani. Un altro costo, altissimo, della tragedia. E i genitori, presi da una vita che anche per loro non ha più le certezze anche civiche di un tempo, appaiono sfiduciati. Recuperare la memoria appare, perciò, un dovere. E non è un’operazione nostalgia. Ma un’operazione verità.
Per concludere: purtroppo abbiamo visto che il lavoro da fare per far “risorgere” L’Aquila è ancora molto; quali sono, da cittadino aquilano, le tue speranze per il futuro di questa città e dei tanti giovani che qui hanno scelto di continuare a vivere e studiare?Ricostruire L’Aquila, L’Aquila quella vera, è una sfida enorme. Dopo il devastante terremoto del 1703, gli aquilani la vinsero. La mia speranza è che, anche stavolta, ce la facciamo. Lo dobbiamo a gli sforzi che fecero quegli uomini e quelle donne nel Settecento, quando non c’era certo la crisi economica che attanaglia il pianeta oggi ma nemmeno le tecnologie di cui oggi disponiamo. L’Aquila è patrimonio dell’umanità. Ce la deve fare. Ce la dobbiamo fare. Ma per farcela gli aquilani devono tornare a sentirsi Aquilani. Prendo a prestito le parole del saggio, contenuto nel mio libro, dell’avvocato Attilio Cecchini, autorità morale cittadina: “Ma l’Aquilanitas non demorde, malgrado tutto quello che produce ’desinit in piscem’. Dissacrante, permalosa, anticonformista, trasgressiva, trasversale, controversa, anacronistica, essa continuerà a spruzzare adrenalina e veleno negli ingranaggi della futura rinascita, perché della polis è la radice più profonda. Questa è la nostra divisa da 755 anni, la cifra esistenziale di una comunità unica al mondo, rissosa e campanilista in tempi sia di vacche grasse che di miseria, libertaria ed anarchica secondo l’omaggio che le rese Niccolò Machiavelli, irriducibile come purtroppo constatò a sue spese Braccio da Montone”.
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