Padre Giovanni Battista Messari, martire goriziano nel Tonchino

 l fiore all’occhiello della Chiesa Goriziana nei decenni più recenti è stata l’attività di promozione della missione ad gentes. Se andiamo a ritroso nel tempo e cerchiamo quasi un antesignano o comunque un esempio sublime di tale impegno pastorale possiamo trovarlo nella figura del padre Giovanni Battista Messari, gesuita, figlio della Gorizia di fine Seicento. Di lui ci è dato di scrivere nei giorni estivi del terzo centenario della morte avvenuta a cinquant’anni nel lontano Tonchino (Nord Vietnam al confine con la Cina) il 15 giugno 1723 e dei 350 anni dalla nascita in parrocchia dei Santi Ilario e Taziano il 12 agosto 1673. E lo facciamo quasi per giustizia, dato l’oblio in cui è caduta la sua eroica testimonianza missionaria, ricordata appena da qualche riga nel Dizionario Biografico dei Friulani, mentre è del lontano 1950 la pubblicazione a lui dedicata da quell’appassionato ritrattista dei conterranei anche meno noti – e tanto più se religiosi – che fu don Emilio Patriarca, direttore della Biblioteca Guarneriana di San Daniele del Friuli (citata nella scheda su padre Messari curata da Loredana Franco nella raccolta per il Grande Giubileo “Santi e Martiri nel Friuli e nella Venezia Giulia”, pagg. 216-217).  La radice della vocazione del Messari è piantata nel Collegium di Gorizia, a servizio dei cui tantissimi allievi la chiesa di Sant’Ignazio era stata in quegli anni edificata. Qui, alla scuola esigente ed eccellente dei padri gesuiti, il giovane figlio di una benestante famiglia della città (ultimo degli otto figli di Michele Messarr e Caterina) era stato educato al sapere e alla virtù, rivelando un non comune talento speculativo, unito a portentosa memoria. Per cui il giovane dal 1695 fu avviato agli studi universitari a Graz, dove si laureò in filosofia, diplomò in magistero e iniziò lo studio della teologia. È qui che, già sacerdote secolare, il Messari entrò (1701) nella Compagnia, assolvendo poi al noviziato a Vienna. Nel 1704 lo ritroviamo nella sua città, educatore e anche catechista delle Orsoline, e quindi a Fiume. Ma ciò che urgeva nel suo cuore, e lo aveva indotto ad abbracciare la vita gesuitica, era il fervore missionario ad extra, lo stesso del celebre San Francesco Saverio, il gesuita emblema delle missioni cattoliche d’Oriente: un fascino avvertito pure dal suo fratello Giovanni Paolo, che pure dapprima educò alla fede e al sapere i giovani (componendo per essi operette catechistiche) e poi, soprattutto, si fece lui pure gesuita e missionario nell’India Orientale, morendo assassinato. Il “sogno” di padre Giovanni Battista divenne realtà nel 1705 quando ottenne il permesso di partire verso la Cina. Un anno intero durò il suo viaggio (il percorso, lunghissimo, seguì la rotta tutta marittima che doppiava il Capo di Buona Speranza) fino al porto di Macao dove continuò la sua formazione fino ai voti solenni nel 1714, dedicandosi all’opera di conversione dei pagani in questa e nella vicina provincia del Celeste Impero di Canton. Solo nel 1715 fu destinato al Tonchino, arrivandovi dopo trentadue giorni di cammino. Oltre a un vasto campo di apostolato (“Là mi attende la cura di dodicimila anime”, scrisse), padre Messari trovò in quella regione oltre il limite meridionale della Cina una situazione molto tesa, non favorevole all’espansione del verbo cristiano, che pure aveva attecchito da tempo: i missionari erano per lo più perseguitati e costretti a vivere nei boschi o proscritti nella loro attività, mentre in alcuni altri casi godevano dei favori reali. A padre Messari venne riservata una sorte martiriale nell’opera di evangelizzazione nella quale aveva deciso di ardentemente spendersi per il rimanente della vita. E questo nonostante e forse a motivo del suo innovativo metodo missionario, che lo aveva portato a perfezionarsi nella lingua locale, a studiare usi e costumi del Tonchino e a vestire alla maniera di quel popolo, avvicinando tutti con rispetto, cristiani e pagani. Il confratello che fu con lui sempre e che condivise con padre Messari anche una fine cruenta, padre Bucarelli, così ne sintetizzò l’ardore missionario: “Non so descrivere la sua vita, degna di ammirazione, né le sue virtù, veramente perfette, ché se ne potrebbe scrivere un grosso volume”. Passando di località in località, il gesuita goriziano insegnava, ammoniva, battezzava, “disprezzando le difficoltà e i pericoli, con tal forza che non può dirsi umana da resistere perfino alla morte”. Decise quindi di passare in Cocincina, regione immediatamente a sud del Tonchino (l’attuale Vietnam), ancora poco evangelizzata: e anche qui si espose al pericolo tanto da essere imprigionato e condannato con l’accusa di convertire con l’arte della magia. Per l’intervento di un confratello, gesuita alla corte del re locale, la pena di morte fu commutata nel bando perpetuo. Ciò non fermò il padre Messari che continuò a dedicarsi all’assistenza dei perseguitati cristiani – accusati di fomentare disordini contro la corona – nascosto nelle loro case.Alla fine lui e padre Bucarelli vennero invitati dal superiore gesuita a trasferirsi in Cina, ma durante il viaggio attraverso il Tonchino furono riconosciuti e costretti a rifugiarsi in una foresta, apparentemente inaccessibile, dove vennero però scovati causa la denuncia del loro rifugio da parte di un cristiano sottoposto a tortura. Portati entrambi in catene nella capitale, vennero fatti oggetto lungo il viaggio di ingiurie, percosse, derisioni, sopportate sempre in silenzio. Non fu peraltro così quando la plebaglia si scagliò contro le immagini sacre incitando all’apostasia: allora padre Messari, con il consueto ardore, minacciò a voce tonante i castighi terribili di Dio. Per cui fu rinchiuso e incatenato in una gabbia di bambù e sottoposto alla pena mortale lenta degli stenti, del freddo, della fame. Dopo dieci mesi trascorsi in questa condizione ignobile, egli rese la sua anima a Dio (il compagno venne invece decapitato): fu sepolto, per ordine del re, lontano dalla città, ma, per volontà dei cristiani, con le mani ancora legate (quale prova della sua fede e del “martirio” sopportato). Raccolti dopo sette mesi i resti, questi furono tumulati con onore dai gesuiti presenti nel Tonchino nella chiesa della loro missione di Kene. Nel trasporto fu notato che la mano destra, con la quale padre Messari aveva tante volte battezzato e benedetto il popolo, era intatta. Aveva scritto padre Giovanni Battista Messari: “Un vero apostolo è nato per patire e tutte le croci devono servirgli di cibo e di bevanda”.