Bisogna saper perdere

Volevo studiare psicologia all’Università e invece al test di ingresso mi hanno sonoramente bocciato: questo è stato uno dei miei primi insuccessi che desidero apra il mio “curriculum dei fallimenti”.Che cos’è?E’ l’opposto dei curricula patinati che scriviamo ogni giorno per venderci meglio: invece che lucidare i successi, voglio cimentarmi nell’ elencare gli insuccessi incorsi per arrivare a fare (con soddisfazione) quello che faccio. Raccontare il “dietro alle quinte” insomma, dove si possono celare elementi preziosi apparentemente simili seppur profondamente differenti: l’avidità della competizione o la passione della competizione. L’amore per quello che si fa o l’opportunismo con quello che si fa. La perseveranza della dedizione o il bisogno di vincere, anzi, l’opposto, di non perdere, non perdere mai perché la società ci vuole sempre maledettamente comunque vincenti. E se provassimo a ribaltare la prospettiva?In Italia c’è chi lo insegna, l’insuccesso. La “Scuola di fallimento” dedicata proprio a spiegare il valore dell’errore: si parla troppo poco di cultura del fallimento che non è rassegnazione ma, all’opposto, comprende due fondamentali valori: quello di imparare a tollerare gli errori propri e altrui e la tenacia del ritentare. La famosa risalita.I migliori in questo, almeno a quanto ci dicono le statistiche, sono i Nordeuropei accomunati dall’accettazione come tentativi comunque del fare. Gli Americani, con tutta la loro retorica sul valore del fallimento, sono a sorpresa un po’ indietro con il perseverante tabù di non avercela fatta e non a caso in Sylicon Valley e a Stanford si registrano i maggiori casi di depressione e suicidio. I meno indulgenti restano comunque i Paesi asiatici, dove il fallimento è tutt’ora considerato un grosso stigma sociale. E gli Italiani? I numeri ci raccontano poco propensi alle seconde possibilità e ansiosi performers in una società drogata dall’apparire (con la conseguente diffusa ansia prestazionale).Allora lasciamoci ispirare: James Dyson, inventore geniale, amava dire che il suo aspirapolvere senza fili è “nato da 5.217 errori”. Sara Blakely, miliardaria americana fondatrice del marchio d’abbigliamento Spanx, racconta che a cena suo padre le chiedeva sempre: “Cos’hai sbagliato oggi?”. Perfino Einstein raggiunse traguardi incredibili cadendo in veri e propri abbagli. Nel mio piccolo, dopo la mia bocciatura al corso universitario di Psicologia, sono seguiti i fallimenti più disparati che, visti con l’indulgenza del dopo, sono anche i più divertenti.Nel 2005 sono stata assunta in banca e ho concesso un prelievo cospicuo ad un insolvente. Sei mesi dopo non ero più in banca.Nel 2002 al colloquio per una società di avvocati estera mi chiesero il mio livello di inglese, “Ottimo” mentii io. Iniziarono a parlare tutti in inglese con me e fra loro. Per non parlare delle prime volte che ho relazionato in pubblico: soffrivo di attacchi di panico, scordavo le parole, pensavo che sarei morta così, davanti a tutti. Ho iniziato a scrivere quello che volevo dire e per molto tempo l’ho letto con il fiato corto e la scusa di arrivare sempre di corsa (o aver fatto le scale).Ad un colloquio di lavoro nel 2006 mi hanno chiesto cosa fosse la “Reuters” (tra le più grandi Agenzie di stampa europee). Risposi che era il dispositivo per il Wi –fi e, corretta, dissi, peggiorando la situazione, che non avevo capito bene la parola.Ho fatto decine di concorsi pubblici (nei Comuni, per diventare Magistrato, Prefetto, Giudice della Corte dei Conti, Giudice Europeo dei brevetti, Funzionario all’Agenzia delle Entrate e alle Dogane, Professoressa di diritto nelle scuole, Responsabile dell’anticorruzione per l’intera Regione) e almeno il doppio dei colloqui nel privato: il mio curriculum, visto dalle pagine degli insuccessi, parla più di un’ostinata caparbietà che non di performance mirabolanti ed occasioni fortunate.E soprattutto di saper perdere: in una società improntata ad avere sempre e sempre di più, nessuno impiega più del tempo ad insegnare come si perde, come rinunciare ad una persona o ad un obiettivo o come ritentare, come risollevarsi dopo una caduta, come praticare la tenacia senza che diventi un’ossessione che divora sé stessi e gli altri.Anni di “no” possono, positivamente, addestrare al cambiamento o, negativamente, far crescere la frustrazione, la perenne insoddisfazione, l’acredine verso gli ostacoli e le persone che sono state tali.E se provassimo tutti a scrivere il proprio curriculum dei fallimenti sforzandoci così a dare un senso alle nostre perdite (che per il senso delle vincite non serve un grande sforzo)?