Per un lavoro sempre più sostenibile

La tendenza volta a ricercare la qualità del lavoro e non più solo la quantità (work-life balance) pare negli ultimi anni strutturarsi con decisione.La sostenibilità del lavoro non è più, come era stata rubricata inizialmente, condizione ascrivibile a qualche capriccio isolato o a fenomeni legati a stereotipate sciatterie generazionali, ma è diventata ora a tutti gli effetti un requisito di discrimine di appeal tra un’Azienda e l’altra.Di un tanto ho già ampiamente avuto modo di soffermarmi nel Rapporto biennale sul rapporto in Friuli Venezia Giulia del 2021: oggi è necessario ribadire quanto allora emerso e lo dico, rafforzata in questo, dalla personale esperienza sul territorio e dalle più alte opinioni socio-lavoristiche. In “Bullishit Jobs”,  l’antropologo David Graeber scrive: “Ci ritroviamo condannati a trascorrere la maggior parte del nostro tempo al lavoro, a svolgere compiti che ci rendiamo conto che non fanno alcuna differenza per la società. Il danno morale e spirituale che deriva da questa situazione è grave: è una cicatrice che segna la nostra anima collettiva” fotografando quell’insofferenza diffusa che poi, complice il lock-down forzato da Covid, è confluita nel fenomeno mondiale delle “grandi dimissioni” con lavoratori consci e non più disposti allo svuotamento della propria identità.Nel contesto sociale regionale come quello del Friuli Venezia Giulia, tra l’altro inflazionato dall’infelice record di denatalità e quindi di minore offerta di capitale umano, la sostenibilità si erige così ad essere uno tra i più significativi requisiti di scelta (o esclusione) di offerte di lavoro.I dati del Rapporto Biennale sul lavoro in regione lo fotografano: Aziende che mediante lo strumento della contrattazione di secondo livello offrono nuove soluzioni ai propri lavoratori (con percentuali in questa esatta elencazione decrescente): flessibilità oraria, smart working e banca delle ore; convenzioni/contributi con nidi e dopo scuola; servizi vari a supporto della genitorialità.E sono le Aziende con un numero di lavoratori più basso (sotto i 50 dipendenti) a vantare i maggiori sforzi per la sostenibilità quasi a dimostrare che è entro questa fascia che si gioca la maggiore partita della competitività ove l’attrazione o il mantenimento di ogni singolo lavoratore è maggiormente preziosa.Soffermandosi poi sulle misure più scelte per accrescere la sostenibilità lavorativa si nota tra l’altro che sono le stesse (seppur non nell’ordine elencate) da sempre invocate per le “esigenze di genere”: asili, flessibilità, supporti. Da bisogni di genere quindi a condizioni di sostenibilità per tutti: un passo importante che dà fiducia ad una reale svolta di attenzione verso la conciliazione casa-lavoro.Non vi è fiducia invece sulla maturità attorno al “tema femminile”, cronicizzatosi come disvalore sociale e professionale con percentuali ancora lontane da un punto di equilibrio che segna il degrado della condizione delle donne con evidenti ripercussioni, poi, in tutto il panorama economico, sociale e lavorativo.Un trend che non pare peggiorato nei numeri ma continua perdurante, con rischio di assuefazione, nella sua gravità: la tutela dei diritti delle donne pare interessare sempre meno la collettività, essere soprassedibile o comunque giustificabile innanzi a ragioni considerate preminenti.Si dibatte dei diritti delle lavoratrici sempre più come conseguenza di un’altra urgenza: la denatalità, le pensioni, la violenza di genere e il Pil e sempre meno come fenomeno principale (e scatenante).E se il “macro” ci dimostra questo, il “micro” registra timidi cambiamenti già evidenziati nel Rapporto precedente soprattutto con la crescita della richiesta dei congedi parentali maschili che, comunque, la normativa fissa in quote ancora completamente asimmetriche tra padri e madri. Questo trend, indagato dalla sottoscritta senza presunzione di assolutismo nei dibattiti pubblici con le Associazioni datoriali e con professionisti del mondo del lavoro, conferma da un canto il positivo slancio maschile di partecipare maggiormente alle esigenze della propria famiglia (soprattutto dei più giovani e seppur ancora in un clima di ostracismo generale maschile) ma dall’altro risponde anche al caso sempre più frequente di fratture familiari (separazioni e divorzi) ove poi i padri si ritrovano  direttamente interessati alla gestione dei propri figli. (come a dire che più che essere una scelta di parità è una necessità).E a proposito di nuovi fenomeni sociali che influiscono (e in questo caso negativamente) sul welfare familiare, doveroso è annoverare anche la “categoria dei nonni” che ora, in misura sempre maggiore, alla nascita dei propri nipoti ancora lavorano e questo per l’aumento della soglia dell’età pensionabile o perché tornati a lavorare per integrare pensioni troppo misere (ricordiamoci che per decenni la società ha taciuto su modulazioni di part time – tipicamente femminile – che, raggiunta l’età pensionabile nel nuovo regime contributivo, ha restituito pensioni irrisore) o perché, non da meno, non rassegnati al proprio ritiro professionale in un turnover che pare aver abbandonato il senso della “ruota generazionale”. Ma anche perché caregiver di nonni ancora più anziani (data la crescita dell’età media) o, e infine, (altro fenomeno sociale in rapida crescita) perchè, separatisi in tarda età, poi rivendicano la loro individualità a scapito delle abnegazioni familiari.Se grandi sfide sociali si palesano dunque, e di conseguenza nel mondo del lavoro, il tema della “parità di genere” in questo mare di novità pare perdere la sua urgenza, vivendo sempre più solo di riflesso e portando con sé l’arretratezza della condizione femminile che, a parità di gravità, col passare del tempo pesa invece sempre di più.Complici principali di questa colpevole stagnazione, la frammentazione degli obiettivi, la connivenza alle regole patriarcali e, non da ultimo, l’equivoco doloso che le azioni volte alla parità di genere appartengano sempre di più alla morale e non, come invece sono, al diritto.