Frančišek Borgia Sedej e il suo tempo

“Le azioni violente dei fascisti superano quelle commesse in queste terre da Vandali, Unni e Turchi. Ecco perché la popolazione slava e italiana è molto amareggiata, perché non ha fiducia nelle autorità, che tollerano una situazione del genere e non fanno nulla per garantire la sicurezza del Paese”. Sono le parole scritte da Frančišek Borgia Sedej nei primi anni dopo il 1918 e dopo che lo Stato italiano ha preso possesso dei nuovi territori, riportate da Antonio Scottà nel suo libro sui vescovi dei confini orientali “I territori del confine orientale italiano nelle lettere dei vescovi alla Santa Sede (1918-1922)”. Il libro conferma il carattere monumentale di Sedej, com’è rimasto impresso nella nostra memoria.Ci parla di un vescovo meraviglioso, che sa essere critico anche nei confronti dei suoi connazionali (ad esempio, quando si oppose all’istituzione di un sola Chiesa slovena e croata nel Litorale e più tardi nel 1918 si rifiutò di firmare il documento che sanciva la partecipazione degli Sloveni alla fondazione dello Stato jugoslavo) e allo stesso tempo sa contrastare i nuovi governanti e quando ci vuole, persino il Vaticano (anche se la Santa Sede difendeva l’arcivescovo e cercava sempre di respingere le richieste del regime) in modo energico, non privo di un’ironia molto fine (per esempio nelle lettere, riportate da Scottà, al segretario del papa, cardinale Gasparri).Lo storico Luigi Tavano scrisse che la diocesi di Gorizia fu nel periodo tra le due guerre, nell’ambito della Chiesa italiana, una “diocesi particolare”, in quanto fu uno dei più dolorosi fenomeni ecclesiastici in Europa. E questo deriva dal fatto che il Litorale e il Goriziano dopo la prima guerra mondiale si trovarono sotto la giurisdizione italiana. L’Italia non era preparata ad accogliere le nuove province popolate dalla popolazione di nazionalità non italiana. Era un paese liberale ed anticlericale, già durante la prima guerra mondiale, nel territorio occupato furono internati circa 40 sacerdoti friulani. Tra il 1918 e il 1919 più di cento sacerdoti sloveni e croati furono internati in Sardegna. Il liberalismo italiano locale stava già combattendo una lotta politica contro l’Austria, contro una politica sociale cristiana e dopo la guerra questa lotta si è mantenuta anche contro la popolazione slava.Lo Stato centralizzato italiano non aveva esperienza con le minoranze nazionali e non sapeva cosa farsi della loro autonomia storica. Le nuove province passarono da un sistema culturale e amministrativo ad uno completamente diverso: quello italiano. Nella monarchia asburgica la Chiesa aveva una sua autonomia, i vescovi e i sacerdoti partecipavano alla vita civile, sociale e culturale del territorio.L’Italia, che era completamente uno Stato centralizzato e laico, era in conflitto con la Santa Sede. Per esso le minoranze non erano solo un problema politico-amministrativo, ma anche un problema culturale. ll regime fascista condusse una politica dell’assimilazione e della diversità e l’ha attuata violentemente. Sloveni e croati erano per le autorità italiane all’inizio “stranieri”, poi, quando resistettero alla violenza, diventarono “nemici”. Gli storici sono comunque tutti d’accordo del ruolo decisivo svolto dalla Chiesa slovena e croata in Italia nel mantenere in vita la coscienza e la cultura nazionale, il che significava una dura resistenza alla politica di denazionalizzazione condotto dal regime. Fran¤išek Borgia Sedej, nato nel 1854 a Cerkno, nella Val d’Isonzo, dopo il liceo a Gorizia e dopo gli studi a Vienna, diventò sacerdote biblista al seminario teologico e nel 1906 il decimo arcivescovo dell’arcidiocesi di Gorizia e il sesto di discendenza slovena, dalla fondazione dell’arcidiocesi. Dopo la sua morte non vi fu nominato più nessun vescovo di ’’madrelingua slovena’’. I fascisti lottarono con tutte le loro forze per rimuoverlo dalla sede. Ma egli resistette fino al 1931, quando gli fu presentata la richiesta di chiedere il pensionamento, come desiderio di papa Pio XI. Pose però una condizione e cioè che a Gorizia venisse un vescovo che fosse ugualmente solidale con i fedeli italiani e sloveni.Il Vaticano purtroppo mancò alla sua parola e, su richiesta delle autorità fasciste, nominò suo successore, l’amministratore apostolico, Giovanni Sirotti, convinto nazionalista che inaugurò una politica di “denazionalizzazione”. Togliere la propria lingua però, significava per la popolazione slovena la “scristianizzazione”, scrisse lo scrittore triestino Alojz Rebula, a cui si sarebbe dovuto assistere più tardi una caduta verso un’ideologia opposta alla Chiesa. Tutto questo ha spezzato il cuore di Sedej.Un mese e mezzo dopo le sue dimissioni, il 28 novembre 1931, morì e il 1° dicembre fu sepolto nella basilica del Monte Santo alla presenza di un gran numero di fedeli, sia sloveni che italiani. La popolazione lo amava poiché fu sempre giusto con tutti i sacerdoti e non aveva preferenze. Il suo unico obiettivo era aiutare i credenti di entrambe le nazionalità e proteggere l’autorità della chiesa. Due anni dopo, nell’agosto del 1933 con un bando emanato dallo stesso Mussolini, venne proibita la parola slovena anche nelle chiese (proprio a Ferragosto di 90 anni fa). Fu un grande trauma per la comunità slovena e specialmente per gli anziani, perché l’italiano era loro completamente estraneo in chiesa, e per i bambini, poiché l’ordinanza del duce prevedeva anche il sequestro dei catechismi sloveni.