Scappare dalla guerra
1 Luglio 2015
Quando il “vero uragano” della guerra si abbattè direttamente sul Goriziano, questo non interessò solo i soldati degli eserciti chiamati a fronteggiarsi sul campo di battaglia, ma anche i molti civili che, pur non essendo direttamente coinvolti come parte attiva nei combattimenti, si trovavano loro malgrado in pericolo o in una situazione di grave precarietà a causa della guerra. Questi stavano vedendo la propria patria (per non dire la propria casa) devastata dal passaggio del fronte o occupata dalle truppe, o si trovavano nella condizione di dover lasciare tutto e fuggire, per riuscire a mettersi in salvo.Si trattava di una situazione del tutto nuova, sia perchè la guerra era stata lontana da queste terre ormai da molti anni (l’ultimo passaggio di truppe, durante la campagna del 1866, era avvenuto in un clima e con conseguenza molto diverse), sia perchè si comprese abbastanza presto la terribile novità della guerra presente, e la pesante realtà di quella che si rivelò in sostanza una prolungata occupazione militare di una porzione consistente del nostro territorio provinciale. Bisognava quindi convivere con la guerra o con i soldati, e, se possibile o necessario, trovare il modo di evitare il peggio, di scappare dalla guerra, pur lasciando alle spalle le proprie case, i propri campi, la propria patria. Drammi nuovi, ai quali non era facile essere preparati.
I pastori restano con il loro greggeNegli ultimi giorni del maggio 1915 anche per i sacerdoti diocesani, “civili” piuttosto particolari, le aspettative e il futuro immediato si rivelavano sostanzialmente oscuri. L’arcivescovo Sedej il 21 maggio, a ridosso dell’arrivo delle truppe italiane, aveva dato indicazioni precise ai sacerdoti in cura d’anime di rimanere nelle proprie sedi, accanto al proprio gregge, anche davanti all’imminente invasione nemica. Ed egli stesso aveva manifestato l’intenzione di restare a Gorizia, qualunque fosse stata la situazione (a meno che motivi di forza maggiore non l’avessero costretto a fare diversamente); e paventando quella peggiore, ovvero l’immediata occupazione italiana anche del capoluogo provinciale, si era dichiarato pronto all’eventuale nomina, per la parte che sarebbe rimasta sotto il controllo austriaco, di un Vicario generale. La priorità era per il pastore garantire la cura e l’assistenza spirituale al proprio gregge.Così i sacerdoti diocesani restarono in genere nelle loro sedi, vicini alla popolazione che era stata loro affidata, in attesa dell’arrivo delle truppe italiane. Rimasero accanto al proprio gregge anche i preti che svolgevano il proprio servizio nei paesi che furono evacuati dalle autorità austriache: essi seguirono nella profuganza i propri fedeli. Qualche sacerdote di origine regnicola o che aveva manifestato vicinanza al movimento panslavista venne allontanato dalle zone del fronte per intervento delle autorità austriache. Ma si trattava di casi isolati, e di provvedimenti presi più per precauzione che per persecuzione.Drammatico fu l’incontro con le truppe italiane: gran parte dei preti isontini venne internata in Italia ed allontanata dal Goriziano.
La guerraA partire dalla fine di maggio del 1915 Gorizia era a tutti gli effetti una città sotto assedio. Le truppe italiane arrivarono subito a Lucinico. Ma qui, alle pendici del Calvario, si fermarono. Le postazioni austriache poste sui colli ad occidente della città erano ben munite. Parallelamente, oltre l’Isonzo, il ciglione carsico era l’altro baluardo delle truppe austriache.La linea del fronte segnò una frattura nella secolare unità del Goriziano: la pianura del Friuli Orientale e la conca di Caporetto a Nord vennero quindi occupate dal Regio Esercito e non si trovarono quindi più a dipendere nè ecclesiasticamente nè civilmente da Gorizia. Per la prima volta dagli anni di Napoleone il Friuli Orientale era staccato dall’antico capoluogo.Le truppe italiane nel loro incedere nella pianura isontina incontrarono paesi già evacuati e paesi ancora in gran parte abitati. La situazione contingente rappresentata dal fronte, dal fuoco continuo, dalla lunga e sfibrante guerra di trincea e di posizione portò l’esercito italiano ad intervenire con operazioni di sgombero, quando gli stessi civili non abbandonavano di loro iniziativa (e possiamo immaginare con quanta triste fatica) le proprie abitazioni. In ogni caso le autorità italiane cercarono in qualche modo di attivarsi nell’organizzare i flussi dei profughi, pur in assenza di un piano articolato di assistenza da parte del Governo. Vennero creati centri di raccolta in Friuli e poi vere e proprie colonie nella penisola destinate ad ospitare i profughi delle “terre redente”, con situazioni estremamente variegate che potevano andare dalla precarietà prossima all’indigenza fino a situazioni più organizzate e dignitose. In generale l’impatto del regio esercito con le popolazioni delle terre occupate si rivelò problematico: incomprensioni linguistiche e diffidenza reciproca portarono in molte occasioni a ritorsioni ed a provvedimenti di internamento. All’atto pratico poi non si tracciò una linea troppo netta tra profughi ed internati, creando situazioni di mescolanza ed incertezza, in cui la libertà personale era alquanto ridotta, in cui queste persone (al di là dei motivi per cui si trovavano in Italia) erano spesso guardate con generale diffidenza (erano pur sempre cittadini austriaci). Non tutti abbandonarono o furono costretti ad abbandonare le proprie case. Molto dipendeva dalla situazione contingente. Se i paesi a ridosso del fronte, dove maggiore era il pericolo, per ordini superiori o per necessità impellente videro la popolazione lasciare le proprie case, man mano che ci si allontanava dal fronte le condizioni potevano essere molto diverse.Nel Monfalconese, occupato dall’esercito italiano nei primi giorni del giugno 1915 e posto a stretto contatto con la linea del fronte, ad esempio, Turriaco rimase sostanzialmente abitato, come in parte anche S. Pier, S. Canzian e Pieris. Ronchi, Fogliano e Sagrado erano stati evacuati dagli austriaci. Quanti erano rimasti a Monfalcone e Staranzano furono evacuati ben presto dall’esercito italiano, come anche Begliano. Tutti i paesi subirono danni ingenti durante il conflitto.Qualcuno rimaneva, rischiando la vita pur di cercare di salvaguardare i propri beni o per non perdere il contatto con la propria famiglia. Dove i civili erano più presenti, si cercava di raggiungere un equilibrio, precario, con i militari. Nacquero molte osterie oltre che case di piacere per soddisfare la domanda che veniva da ufficiali e soldati; molte famiglie trovarono il modo di sbarcare il lunario offrendo (a pagamento) ospitalità agli ufficiali che potevano permetterselo. Forme di economia di guerra consentivano a molte famiglie di sopravvivere, mentre gli uomini abili erano soldati dell’esercito austriaco ed i campi non potevano più essere coltivati.
Gorizia bombardataLe bombe iniziarono ben presto a colpire Gorizia, con un’intensità che andò aumentando col passare del tempo. La città venne progressivamente a svuotarsi della propria popolazione civile. Molti goriziani cercarono rifugio all’interno, lontano dal fronte, nei campi profughi che vennero allestiti dal Governo austro-ungarico o presso parenti o conoscenti.Stando alle ricostruzioni degli storici, se ancora ad ottobre del 1915 in città era rimasta una popolazione stimata intorno alle 8.000/10.000 unità, nell’estate dell’anno successivo gli italiani trovarono una città di circa 3.500 abitanti. Iniziò quindi un lungo assedio che si concluse solo nell’agosto del 1916 con la presa di Gorizia da parte dell’esercito italiano. Per quanti rimasero in città la vita tra 1915 e 1916 fu segnata dalla convivenza con gli orrori della guerra. Una vita quasi clandestina. Scriveva l’Eco del Litorale il 9 settembre del 1916, descrivendo la situazione dei tempi precedenti all’arrivo degli italiani: “Di quando in quando lo scroscio dei proiettili, diretti sulla città, diminuiva, allora la popolazione usciva sulle strade. Si era già abituati a questi orrori, e benchè il bombardamento della città superasse di molto i terrori del tempo addietro, il fatalismo ottenne il sopravvento sulla popolazione. Si provò d’attendere alle solite preoccupazioni giornaliere, la gente andava nei negozi, in piazza e in chiesa; il traversare le strade peraltro era possibile solamente per breve tempo con meno pericolo di vita, e anche allora faceva duopo camminare rasente ai muri. Molti abitanti preferivano nascondersi nelle cantine, le quali pure offrivano poca sicurezza; la gente povera che non aveva cantine a disposizione, era costretta a rimanere al pianoterra”.
La diocesi durante il conflittoMons. Sedej, fedele alle indicazioni date, inizialmente rimase in città. Però a fine luglio del ’15, l’Arcivescovo, su consiglio dei comandi militari (e dovette trattarsi di qualcosa di più di un consiglio cordiale), lasciò Gorizia. Si trasferì prima a Vipava e poi, alla fine di agosto, raggiunse Cerkno, il proprio paese natale, con la speranza di poter rimanere almeno all’interno dei confini diocesani.In città erano rimasti alcuni sacerdoti, tra cui il parroco di S. Rocco don Carlo de Baubela e mons. Francesco Castelliz, rettore del Seminario Teologico, che venne incaricato dall’Arcivescovo di reggere la Curia in sua assenza, rappresentandolo informalmente in città e provvedendo anche a gestire la cassa dei sussidi per le famiglie dei richiamati che la Luogotenza di Trieste aveva affidato proprio al presule goriziano. Il pericolo rappresentato dai bombardamenti e l’opportunità premevano. Si trattava di trasferire in un luogo sicuro non solo la persona dell’Arcivescovo, ma soprattutto l’autorità che incarnava; inoltre, ed era una priorità per il presule, bisognava riavviare i corsi del Seminario (necessari per garantire continuità alla vita religiosa: la guerra sarebbe pur finita in un futuro si sperava breve) e mettere anche in sicurezza i preziosi tesori della sua biblioteca. L’economo del Teologico, don Anton Rutar si diede in tal senso molto da fare, facendo prima di tutto trasportare i libri ed i codici più preziosi nel convento dei Cappuccini di Škofja Loka in Carniola. Il fatto che l’edificio del Seminario Teologico fosse stato occupato dalla Croce Rossa e trasformato in un ospedale suggerì di trasferire tutto il prima possibile.La soluzione definitiva venne trovata dal Capitano provinciale, Preposito del Capitolo Metropolitano e in quel tempo anche vicepresidente del Comitato di assistenza per i profughi meridionali mons. Luigi Faidutti, il quale riuscì a trovare ospitalità per arcivescovo e Seminario nella struttura del monastero cistercense di Sti?na presso Lubiana.Qui mons. Sedej si trasferì già nei primi giorni del dicembre 1915. La riorganizzazione fu progressiva. Per prima cosa vennero riattivati i corsi del Seminario Teologico, richiamando docenti e seminaristi, e poi, dopo la presa di Gorizia, anche l’attività della Curia. Qui venne così trasferita l’intera biblioteca del Seminario, che avrebbe fatto ritorno a Gorizia appena nel 1920, sempre grazie alle preziose cure di don Anton Rutar. Da Sti?na Sedej si impegnò con fattive azioni: verso i profughi, verso i sacerdoti rimasti nelle proprie sedi ancora in territorio austriaco, verso la popolazione rimasta in terra austriaca, verso i preti ed i laici internati in Italia.
Gorizia conquistata dagli italianiLa presa di Gorizia (8 agosto 1916) portò ad un ulteriore abbandono della città: non solo militari e personale amministrativo, ma anche molti civili ed alcuni dei sacerdoti che vi erano rimasti rischiando la vita sotto i continui bombardamenti fuggirono, cercando rifugio nell’entroterra.Anche mons. Castelliz, in quel giorno in cui “tremava la terra come scossa da terremoto”, lasciò Gorizia. Impressionante quello che si presentava ai suoi occhi: “La strada era ingombra di soldati che arrivavano, di fuggiaschi che partivano: fanciulli, uomini, donne. […] I fuggiaschi si sbandavano dispersi, divisi, saltavano nei fossi, si spingevano nelle siepi. I fanciulli piangevano, le donne strillavano, gli uomini chiamavano, imprecavano.” Il sacerdote, assieme ad un confratello (don Giuseppe Grusovin) dopo aver faticosamente trovato un carro (e dopo aver bruciato il suo diario di guerra per timore che, finito nelle mani degli italiani potesse, essere usato contro di lui) lasciò Gorizia nella notte, viaggiando verso Aidussina “nel buio, in mezzo a interminabili file di soldati e di carri – una vera odissea”. Colonne di profughi si spostarono infatti da Gorizia e dai paesi vicini verso la valle del Vipacco. La ricostruzione di quei momenti (i passi sopra citati sono presi da scritti di mons. Castelliz riportati da Camillo Medeot nel volume “Lettere da Gorizia a Zati?ina”) rende solo vagamente l’idea di quella che fu la conclusione di 14 mesi d’assedio per la città di Gorizia.
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