Quale teologia per un cambiamento d’epoca?

Quale teologia per un cambiamento d’epoca? Potrebbe essere questa la domanda alla quale tenta di rispondere il Papa con la sua lettera Motu Proprio Ad Theologiam Promovendam con la quale il primo novembre scorso ha riformato gli statuti della Pontificia Accademia di Teologia, istituzione fondata più di tre secoli fa, nel 1718, che ha per scopo lo studio delle scienze sacre e la formazione di uomini e donne ben preparate, in grado di presentare il messaggio cristiano con le categorie del nostro tempo.
Come infatti ricorda san Giovanni Paolo II “La parola di Dio non si indirizza ad un solo popolo o a una sola epoca.
Ugualmente, gli enunciati dogmatici, pur risentendo a volte della cultura del periodo in cui vengono definiti, formulano una verità stabile e definitiva.
Sorge quindi la domanda di come si possa conciliare l’assolutezza e l’universalità della verità con l’inevitabile condizionamento storico e culturale delle formule che la esprimono” (Giovanni Paolo II, Lett. Enc. Fides et Ratio, 14 settembre 1998, n.95).
Non è certo la prima volta che in tre secoli di storia gli statuti di questa istituzione vengono riformati, e sono passati 25 anni dalla ultima riforma, ma certamente oggi, non in un’epoca di cambiamento, ma in un cambiamento d’epoca, giunti al giro di boa di un processo sinodale dal quale si evince come il popolo di Dio desideri essere soggetto protagonista, formato ed interpellato all’interno dei processi decisionali, anche la teologia, la scienza della fede debba auto-comprendersi come intimamente legata alle vicende, alle preoccupazioni e ai drammi che lo stesso popolo di Dio vive
Ciò non svilisce la disciplina e il rigore dello studio, ma al contrario lo permea di un nuovo interesse e la fornisce di nuovi strumenti per dare risposte alle domande della nostra epoca, immersa nella realtà in cui è chiamata a vivere. In particolare, alla teologia è richiesto di sapersi ripensare all’interno di una cultura del dialogo e dell’incontro, mettendo al primo posto il saper dialogare con il sapere scientifico, filosofico ed umanistico “creando una comunità accademica di fede e studio” (n.9).
Ne abbiamo parlato con mons. Giuseppe Lorizio, presbitero e teologo italiano, docente di Teologia Fondamentale alla Pontificia Università Lateranense, attualmente pro-direttore dell’Ufficio Cultura del Vicariato di Roma.

Nell’immaginario comune, l’uomo di cultura oggi (e quindi anche il teologo) è visto come detentore o interprete di un sapere che forse poco ha a che fare con il quotidiano, riservato a “pochi esperti”. Il papa oggi invece chiede al teologo, come è nel suo stile, di “odorare di popolo e di strada”. Il rapporto fra fede e “cultura” nel suo senso etimologico più profondo è sempre stato cruciale nella storia della Chiesa. Come intenderlo oggi?

L’interpretazione dell’intellettuale in senso elitario esprime un profondo equivoco che concerne il significato di cultura (e di riflesso di teologia), comprimendolo sulla dimensione accademica, laddove invece si tratta della forma mentis che orienta le persone a diversi livelli e concerne aspetti diversi della vita come la musica, il cinema, il linguaggio ecc.
In tal senso la teologia deve farsi carico della mentalità diffusa, interpretarla e orientarla al di fuori delle strutture universitarie.

Al n. 4 la teologia viene presentata come “contestuale”, ovvero capace di leggere e interpretare il Vangelo nell’oggi, vedendo la contemporaneità anche con le sue contraddizioni come una opportunità piuttosto che come un ostacolo; a quale conversione è chiamato quindi il teologo?

Non si tratta di una novità, in quanto da più di trent’anni cerchiamo nel nostro piccolo di rappresentare un modello teologico fondativo-contestuale. Infatti il documento dice che la teologia deve essere “fondamentalmente contestuale”.
La stessa Scrittura non piove dal cielo e non è da ritenersi ispirata in questo senso, ma nasce da un humus contestuale che comprende la situazione di Israele, ma anche quella del contesto mesopotamico in cui si situano diverse delle sue attestazioni.
La conversione auspicata per i teologi riguarda la necessità di superare la modalità, ancora troppo radicata in molti di loro, sistematica e dogmatica per assumere un atteggiamento di “frontiera” rispetto al mondo circostante, alle sue luci e alle sue ombre.

Ci troviamo senza dubbio in una società post cristiana, in cui uno dei compiti del teologo è rintracciare quei semi del Logos, del Verbo di Dio che sono presenti nel quotidiano, e questa tematica le è particolarmente cara, avendo dedicato molte energie nella ricerca teologica in questo senso. Quali sono gli ambiti più fecondi in cui questi semi oggi possono essere ricercati e rintracciati?

Sono tutti quegli ambiti in cui si esprime l’umano con le sue domande fondamentali: chi sono, da dove vengo, dove vado, perché il male? Il cristianesimo ha seminato risposte che attraversano la nostra cultura e si rinvengono non solo e non tanto nei confini delle chiese, ma in quelle espressioni autentiche che fanno capolino nell’arte e per esempio nella canzone.
Un esempio per tutti. La rivelazione ebraico-cristiana ci consegna un’immagine dell’uomo come “unico” e irripetibile. Traccia di tale visione antropologica nel famoso verso di una canzone di moda: “Siamo fuori di testa, ma diversi da loro”, come nel film “Io robot”, quando Sonny, che si è umanizzato dice: “Io sono unico!”.

Il rinnovamento degli statuti della Pontificia Accademia di Teologia è iniziato con il rinnovamento degli studi teologici voluto dal Papa con la cost. ap. “Veritatis Gaudium”. Quale la rilevanza dello studio della teologia oggi nel panorama culturale italiano? E per quanto riguarda le università pubbliche?

L’attenzione del mondo universitario statale verso la teologia è notevole.
Solo a Roma per esempio alla Sapienza c’è un percorso di storia del cristianesimo che ha una lunga storia e rivela una notevole attenzione a tematiche teologiche.
Questo accade anche per esempio a Tor Vergata. Purtroppo nessuno, intendo né il mondo laico, né i vescovi, auspica un ritorno della facoltà di teologia nelle università statali, per motivi opposti. I vescovi temono di perdere il controllo sul sapere della fede, i laici che attraverso lo studio della teologia penetri il credere nelle strutture che, a loro avviso, devono essere laiche, nel senso di neutrali.
Ma questo è un senso deviato della laicità, che piuttosto va intesa come appartenenza capace di cogliere e strutturare ogni aspetto del sapere, quindi anche quello teologico.
A cura di Christian Massaro

(foto Sir/Marco Calvarese)