Dacia Maraini e la memoria di sè bambina durante la guerra

Vita mia (Rizzoli 2023), l’ultimo libro di Dacia Maraini, dei suoi il più personale, si apre con una supplica in versi: “Vita mia… prima di andare/lasciati capire/lasciati concepire/lasciati abbracciare/lasciati raccontare”. Come se il viaggio autobiografico, sui passi di bambina internata in un campo di concentramento, non potesse iniziare se non parlando a tu per tu con la vita, perché, invocata a guisa di Musa intima, propizi una necessaria rinascita, dolorosa e confidente ad un tempo.
Il flusso memoriale riporta alla prima età della piccola Dacia, amatissima dai genitori: due giovani innamorati, belli, liberi, dai nomi da romanzo, Fosco e Topazia, e dal milieu intellettualmente stimolante.
È la curiosità sconfinata del padre orientalista che, sul finire degli anni Trenta, trapianta la famigliola in Giappone, dove Fosco Maraini insegna all’università di Kyoto, e Dacia impara ad abitare una lingua nuova: sulle labbra le parole che aderiscono alle cose, odorose nei nomi quasi tattili degli haiku “in cui una foglia che cade o uno spicchio di luna o una rana che zompa in uno stagno raccontano l’arcano della vita”. Nasce da questa nominazione incantata della realtà, dalle ninnenanne della balia giapponese e dalle affabulazioni della madre, la pittrice Topazia Alliata, la fascinazione di Dacia per la parola che ridà forma al mondo.
L’apertura alla civiltà dell’altro favorisce l’integrazione dei Maraini con la gente del luogo, ma la brutalità della Storia incombe e infine irrompe nella sua crudezza: dopo l’8 settembre del ’43, essendosi i genitori rifiutati di firmare l’adesione alla Repubblica di Salò, l’intera famiglia, allargatasi con la nascita delle sorelline Yuki e Toni, viene deportata a Nagoya, nel campo di prigionia per i traditori della patria.
Seguono mesi di privazioni, malattie, maltrattamenti.
La narrazione, entrando nelle segrete stanze della memoria più vulnerabile, tiene tutto insieme: le secche della violenza e della paura con l’humus gravido di tenerezza di cui i genitori circondano le bambine. E’ un gesto coraggioso del padre, in risposta all’ingiuria di una guardia, a rianimare la speranza di rimanere in vita: conoscendo il valore del giri, in giapponese “obbligo morale” verso il buon nome, l’etnologo Fosco con un colpo d’ascia si trancia un dito, lo getta contro la guardia e così chiedendo rispetto per i prigionieri, ottiene in cambio una capretta il cui latte sarà decisivo per la sopravvivenza della prole.
In Dacia ragazzina l’esempio del genitore adorato si radica maestoso: le ha mostrato che la libertà non si esercita stando su un albero, e lei può vederla impressa, a sigillo di coerenza, nel dito mozzato del padre.
Nondimeno, le angosce di un’infanzia traumatizzata continuano a rendere le notti di prigionia più lunghe dei giorni, e per alleviare l’animo non rimane che tornare alle parole, ai racconti, alle poesie che la madre amorevole tesse alle sue creature.
“Ma cosa ha di così potente la poesia da dare forza perfino a un prigioniero di un campo di sterminio? Qualcosa che riguarda l’armonia?” si chiede la scrittrice.
“L’armonia -diceva la madre- dovrebbe fare parte dei diritti umani”. In primis dei diritti dei bambini, vittime sacrificali, oggi come allora, di illogiche, spaventose logiche di potere e di morte.
Dacia Maraini varca, con pudore e tremore, la soglia del bosco infantile, ne rivede le ombre miste ai chiarori, offrendo una testimonianza che, dai gorghi neri del Novecento, parla al tempo presente, insidiato da recrudescenze razziste e anti-libertarie.
Di fronte al diffuso “sentimento di irritazione e di stanchezza verso la memoria”, Dacia adempie al suo giri: facendosi violenza nel ricordare le umiliazioni subite, celebra il coraggio indomabile della libertà, il capitale inestimabile dell’infanzia, la fiducia solida nella forza della parola.
Annarita Cecchin