“Da Pacem Domine”
13 Dicembre 2023
Il Natale 2023 è alle porte.
Ma non ci porterà la pace in Ucraina, come speravamo.
Magari lo vivremo assorti in una qualche letizia domestica, a noi concessa dal fatto di vivere in una certa parte del mondo, ma sarà difficile non chiederci fino a quando potremo goderne ancora.
Perché una seconda guerra, altrettanto minacciosa per la pace globale, dilania la Palestina e colonne di odio si innalzano fino a sfiorare il cielo, da quelle stesse terre che videro incantate i passi di Gesù di Nazareth.
E non solo, altre crisi più locali insanguinano il mondo o sono sul punto di farlo: il conflitto tra Azeri e Armeni per il Nagorno Karabakh; il susseguirsi di colpi di stato nei territori del Sahel, dove scorrazzano milizie islamiste armate e curiose brigate mai viste prima (Wagner), e dove una tremenda guerra civile provoca migliaia di vittime in Sudan. Succede anche alle porte di casa nostra dove la tensione ricresce tra Serbia e Kossovo, mentre assai più lontano da noi, nel mar Cinese Meridionale (ma il mondo ormai è piccolo), si sentono oscuri fragori di un possibile futuro conflitto dalle conseguenze inimmaginabili.
Le vittime si moltiplicano, civili e soldati, giovani, vecchi e bambini, uomini e donne, senza distinzione, come nelle guerre del ’900, e la vista di ciò che gli uomini riescono a fare torna a appesantirci il cuore.
Tolkien direbbe: Il mondo è cambiato. Lo sento nell’acqua, lo sento nella terra, lo avverto nell’aria. Molto di ciò che era si è perduto da quando qualcosa si muove laggiù, nella terra di mezzo.
Appartengo a una generazione che da giovane ascoltava grata la canzone di Bob Dylan, The Times They Are A-Changin’ (I tempi stanno cambiando) e sentiva una speranza nuova “soffiare nel vento” (Blowing in The Wind); quella che poi ha vissuto la caduta del muro di Berlino e la fine della Guerra Fredda come il segnale inequivocabile che il sogno era proprio vero; quella che ha salutato sorridente con le mani tese verso il cielo gli arei yankee diretti verso casa perché non ne avevamo più bisogno; quella sicura che un’alba inedita stesse per nascere.
Oggi la nostra generazione e le successive appaiono del tutto impreparate a fare i conti con lo stanco ripresentarsi del male nella storia. Perché non siamo più attrezzati a contrastarlo e non sappiamo bene che cosa stia accadendo, né sappiamo più quali atteggiamenti assumere, da che parte stare, perfino se stare da qualche parte e siamo tentati di far finta di niente.
Certo invochiamo la pace in tutti i modi possibili: usando termini che hanno radici comuni anche se dividono popoli in guerra, Shalom, Salam; provando con parole nuove venute dall’Oriente, Om Shanti, o ritornando a quelle cui siamo più avvezzi, Peace, Pace (che vuol dire anche accordo, trattato). E infine, per calmarci e sperare un po’, con l’immancabile “andrà tutto bene” recuperato dai film americani. Nondimeno ogni giorno che passa ci rendiamo di più conto che invocare la pace è necessario, ma non sufficiente, che la storia ha ripreso la sua corsa e sembra decisa ad andare per la sua strada. Chiediamoci allora: ma che cosa sta davvero accadendo? Potremmo dire tre cose in estrema sintesi.
La prima è che l’ordine mondiale uscito dalla seconda guerra mondiale, dapprima in forma bipolare (USA – URSS) e successivamente a egemonia americana, che si sostanziava anche in istituzioni sovranazionali con funzioni regolative della stabilità – ONU, Fondo Monetario Internazionale, Banca mondiale, World Trade Organization – non regge più. Per la semplice ragione che nuovi popolosi paesi si sono affacciati e rivendicano di essere riconosciuti nelle decisioni che contano. Essi pongono il problema di un diverso ordine mondiale. Questo non potrà che essere di natura multipolare, ma nessuno sa oggi come arrivarci. È meglio non credere alle propagande che attribuiscono tutta la colpa ai “politici”. Sono questioni che riguardano innanzitutto gli interessi dei popoli. A che cosa saremmo disponibili a rinunciare per un ordine mondiale più giusto? Le guerre attuali vanno inquadrate in questa situazione e dipendono da essa. È quell’orizzonte cui Papa Francesco allude con l’immagine della “Terza guerra mondiale a pezzi”.
La seconda è che gli stati caratterizzati da sistemi politici democratici, dopo una fase di espansione avvenuta immediatamente dopo l’89, si stanno riducendo di numero, ma quello che più conta è che anche stati di forte tradizione vedono indebolirsi il loro spirito democratico, in Europa come in America. Una parte della popolazione di questi paesi sente di essere dalla parte di chi ha perso a causa dei processi di globalizzazione, delle ricorrenti crisi economiche e di una pesante redistribuzione del reddito che ha premiato in modo indecente le classi più ricche. Essa appare perciò non indisponibile ad avventure autoritarie. L’anno prossimo si vota negli Stati Uniti e il prototipo di tutte le personalità autoritarie (Donald Trump), che già aveva perso solo per un soffio nel 2020, potrebbe vincere di nuovo. Vinca o meno chi compete con lui sa di avere margini molto stretti di manovra e ciò condizionerà anche le sue politiche internazionali. Quanto sarà in grado di concedere ai Paesi emergenti senza deludere troppo il proprio elettorato?
La terza è che siamo ormai molto prossimi alla soglia oltrepassata la quale gli effetti già evidenti anche da noi del surriscaldamento globale e del deterioramento ambientale assumeranno una forma difficilmente reversibile. Mentre la vicenda del Covid22 dice dei rischi che corre la salute mondiale. Tutti sanno che queste sfide fondamentali che l’umanità si trova ad affrontare per la prima volta richiedono una cooperazione sistematica e di lungo periodo tra le nazioni. Ma nell’immediato prevalgono logiche conflittuali e competitive. Come mettersi attorno a un tavolo e decidere concordemente le misure necessarie, gli apporti di tutti e di ciascuno, se nel frattempo ci si fa la guerra? Tanto più che il riassetto dei sistemi economici in chiave “verde” richiede sacrifici anche a paesi che solo ora si affacciano a un livello di consumi accettabile e magari in passato hanno contribuito ben poco al dissesto. Di nuovo la questione va ben al di là del presunto disinteresse dei politici e riguarda le disponibilità dei popoli.
Nessuno potrà più restare semplicemente rinchiuso in casa, perché le sue mura non sono abbastanza spesse. Dovremo imparare di nuovo a vedere come vanno davvero le cose e nel contempo non perdere la speranza che potranno andare altrimenti, se ciascuno di noi non si abbandonerà al cinismo, alla assuefazione e alla disperazione. E diciamo allora: “Da pacem domine”.
Alessandro Castegnaro
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