Gorizia e Ferrara unite nel ricordo di Bruno Farber

Il filo della memoria della Shoah unisce il capoluogo isontino alla città estense nel ricordo dell’alba di una vita annientata dal Male estremo.
Martedì 30 gennaio, al piccolo Bruno Farber, dedicatario del giardino attiguo alla sinagoga di via Ascoli, sarà intitolata la scuola primaria di San Martino, frazione di Ferrara, presente alla cerimonia una delegazione del Comune di Gorizia. Bruno Farber, discendente da ebrei emigrati dall’Europa orientale, aveva appena 3 mesi e 19 giorni quando venne ucciso all’arrivo ad Auschwitz, il 26 febbraio 1944.
Nato a Ferrara da genitori goriziani, Bruno fu deportato insieme al padre Davide Farber, alla madre Ester Fink e ai familiari del ramo materno. Il nonno Benzion Fink, commerciante d’acciaio, in fuga con la moglie Rosa Birnbaum dai pogrom della Russia zarista, dalla natia Berdichev (attuale Ucraina) aveva raggiunto Gorizia, dove svolse l’apprendistato come cantore sinagogale, per poi trasferirsi, negli anni ’30, a Ferrara, nel cui Tempio israelitico fu apprezzato interprete delle preghiere cantate.
Promulgate le leggi razziste, anche i tre figli, Isacco, Lina ed Ester, con le rispettive famiglie lasciarono Gorizia, nella speranza di trovare un riparo più sicuro a Ferrara.
Ma dopo l’8 settembre del ’43 e l’occupazione tedesca dell’Italia centro-settentrionale, la caccia all’ebreo si scatenò feroce. A seguito della delazione di un italiano, i Fink di Benzion finirono nelle maglie degli aguzzini, i fascisti repubblichini alleati del Führer; arrestati e detenuti nel Tempio, vennero trasferiti nel campo di Fossoli, e da qui deportati ad Auschwitz, dove la macchina infernale funzionava a pieno regime. Benzion, la moglie, i loro figli, il genero Davide Farber e quattro nipoti morirono nel campo di sterminio.
Sfuggì fortunosamente ai rastrellamenti, insieme alla madre Laura, Guido Fink, figlio di Isacco e, dunque, cugino di Bruno Farber, che sarebbe diventato illustre anglista e critico cinematografico.
Alle scuole in primis è affidato il mandato di fare memoria attiva di quell’immane tragedia che fu la Shoah. Nelle forme e nei modi più idonei, in considerazione dell’età e sensibilità degli alunni. Spiegando loro che la persecuzione delle vite ebbe la sua infame anticamera nella persecuzione dei diritti. Che i convogli partiti dall’Italia e diretti verso i campi di stermino nazisti furono messi in moto dalla legislazione antiebraica annunciata dal Duce a Trieste e applicata, nell’indifferenza di tanti, da solerti funzionari dell’Italia fascista.
Quell’Italia che espulse dalle scuole bambini e ragazzi ebrei, figli di italiani improvvisamente considerati di serie B. Ora che l’antisemitismo ha ripreso vigore, che negli stessi sopravvissuti, infaticabili testimoni dell’orrore, vacilla la fiducia nella memoria quale antidoto all’odio, questa assume un’importanza ancora maggiore. La commozione profonda ma momentanea non basta a scalfire i pregiudizi antiebraici e a estirparne le radici. Il rapporto con la memoria dell’olocausto può agire sulla coscienza dei singoli se lo studio rigoroso dei processi storici si salda con la riflessione approfondita sul presente, sui conflitti in corso, sulle strumentalizzazioni ideologiche della storia. I bambini ci guardano, sempre. E chiedono dove siamo, ora.
Dove siamo nel rifiuto dei razzismi, nella salvaguardia dei diritti umani, nel contrasto delle derive identitarie e autoritarie in atto nei sistemi democratici.
Dove siamo nella difesa dei diritti dell’infanzia, nella protezione delle vite dei bambini di ogni nazionalità, esposti alle violenze, alle stragi, alla morte.
Non potremo dire che non vedevamo, non sentivamo, non sapevamo. L’intitolazione di una scuola alla memoria di un neonato come Bruno Farber, vittima del più odioso dei crimini, richiama al senso di una responsabilità educativa senza la quale non si disarma la disumanità dell’odio.
Annarita Cecchin