Scuola, patriarcato e cameratismo…

Roma, Liceo classico Visconti, pochi giorni fa: alcuni alunni di una classe quinta hanno affisso alla porta dell’aula un foglio con riportati, accanto ai loro nomi, quelli delle compagne con le quali hanno avuto relazioni intime.
La lista, stilata da studenti prossimi alla maturità, ci restituisce un movimento lungo il piano di faglia. Minimizzare, interpretando il fatto come una goliardata – così definita da ragazze non coinvolte, alle quali un simile trattamento non è apparso grave – comporta il disinteressarsi del magma incandescente sotto la superficie.
La scuola, sovraccaricata di deleghe educative da famiglie e società, non può tutto, non può da sola, ma
ricomincia ogni mattina.
In questo caso, riprendendo il discorso formativo portato avanti nel quinquennio di studi superiori, di cui qualcuno ha perso il filo.
Che cosa racconta quell’elenco di ragazze esposto nello storico Liceo?
Liceo prestigioso della Roma “bene”, nel cuore della capitale.
“Bene” ma con un sottofondo che apparenta realtà privilegiate a contesti di disagio sociale, non immuni, le une e gli altri, dagli agguati di una subcultura plurisecolare, dormiente sotto pelle e pronta a sgusciare fuori, a rialzare la testa, nello squallore di unmachismo duro amorire, che classifica le presunte conquiste in base al grado di intimità raggiunta.
Non è goliardia.
I goliardi medievali, studenti poveri in canna e interessati alla cultura, vagando per mezza Europa diventavano esperti del mondo e ne irridevano le maschere, Venere venerando.
Di rozzo cameratismo sa, invece, la lista di “ragazze-trofeo” messa a punto e resa pubblica permenarsene vanto cercando il plauso.
A coprire l’insicurezza con la baldanza.
L’accaduto mette insieme i rigurgiti del patriarcato con l’esibizionismo venti ventiquattro, come si dice oggi.
Ne esce fuori l’evidenza di un rispecchiamento retrogrado che, lungi dal farci riunire tutta l’erba in un
fascio, nondimeno conferma nella certezza che di sforzi ce ne sono, ancora e ancora, da compiere, per sminare il terreno dagli stereotipi di genere.
Essere donna non è mai stato facile. Nei miti antichi, fondativi di strutture sociali e culturali, la donna la si vuole all’origine di tutti i Mali, oggetto del desiderio, proprietà di padri e di mariti, bottino di guerra dei vincitori.
E ora, nel venti ventiquattro?
Trofeo alzato da una squadretta di diciottenni sulla soglia dell’età adulta?
La vicenda del Visconti – che fa emergere consuetudini da sottobanco – racconta l’ennesima partita giocata male. Con l’idea malata che amare sia possedere, e vivere performare.
Prepararsi alla maturità significa anche sconfiggere l’avversario interiore che ci si porta dentro, sia esso la paura oppure quell’atavica idiozia di credersi uomini se si tengono in pugno le donne, equiparandone la conquista ai successi di un palmarès.
“Quale sulla nera terra sia la cosa più bella” lo dice un poeta. Lo disse usando con orgoglio il pronome “io”.
Facendo valere la sua voce di donna poeta in una società maschilista e guerrafondaia. Sicura che la cosa più bella fosse “ciò che uno ama”. Che non una parata militare, ma la libertà di amare, e la bellezza di farlo, rendesse luminosa la terra.
Al Visconti, come in tutti i licei classici, quei versi si leggono in greco, nell’originale. I poeti si leggono anche per questo: per capire chi essere e chi
diventare. In una parola, maturare, rompendo gli
automatismi pericolosi e retrivi nelle relazioni affettive. Combattendo l’ignoranza e la de-responsabilizzazione, in famiglia con l’esempio, a scuola con la cultura, nella società prendendo posizione.

Annarita Cecchin