Rotta balcanica: flussi in calo ma cambiano i percorsi

È in calo del 30% il numero degli attraversamenti irregolari alle frontiere dell’Unione Europea. Lo confermano i dati raccolti da Frontex nei primi sei mesi del 2024, che rilevano anche un calo del 72% negli attraversamenti della Rotta balcanica, con un flusso registrato di 10.640 persone.
Ma nonostante il decremento, “il fluire è continuo, la Rotta c’è, non si è mai arrestata”, afferma Laura Stopponi, responsabile dell’ufficio Europa di Caritas italiana.
“Sicuramente c’è stata una diminuzione, dovuta soprattutto ad un maggiore controllo in Turchia e ancor più alto in Grecia”, aggiunge, “pertanto c’è un’opera di scoraggiamento nei confronti dei migranti e questo sta avendo i suoi effetti”.
Stopponi rileva poi un nuovo fattore, che riguarda proprio il flusso che percorre i Balcani, poiché “non abbiamo più oggi ’la Rotta balcanica’ ma possiamo parlare de ’le Rotte balcaniche’: l’ingresso dei migranti avviene più o meno sempre dalla Grecia ma poi si ’disperdono’ a seconda di dove vogliano arrivare e delle frontiere che riescono a varcare (Bulgaria, Serbia, Bosnia, Romania, anche Albania e Montenegro), attraversando quindi percorsi diversi, pertanto si fa più fatica a contabilizzarli”.
“I numeri oggi, rispetto a qualche anno fa, non sono altissimi” commenta “resta il fatto che ci sono, queste persone – per lo più afghani e siriani ma c’è anche un alto numero di bengalesi – passano, arrivano ed è una rotta oggi appunto in continuo movimento e molto varia”.

Trieste: porta di accesso a Nord – Est
“Il flusso proveniente dalla Rotta balcanica e che riguarda maggiormente persone provenienti da Pakistan, Bangladesh, Afghanistan e Iraq è costante; un paio di giorni fa abbiamo registrato l’arrivo di una quarantina di persone, ma sono al momento numeri gestibili” spiega padre Giovanni La Manna, direttore della Caritas diocesana di Trieste.
Proprio recentemente è stata messa la parola “fine” alla situazione del Silos, la precaria struttura che da diversi anni era diventata luogo di riparo improvvisato per numerosi migranti: “una situazione che era indegna – commenta La Manna – dove le persone erano costrette a dormire con topi, immondizia, mancanza totale di servizi igienici”.
La sua chiusura ha permesso di realizzare, presso l’Ostello di Campo Sacro, gestito dalla Caritas diocesana, un luogo dove le persone, durante la giornata, vengono intercettate, ricevono informazioni e sono accolte in un luogo dignitoso, in attesa di stabilire se fermarsi a Trieste o proseguire il loro viaggio.
Sempre a Trieste negli scorsi mesi, nell’ambito del “Piano freddo”, il nuovo vescovo, don Enrico Trevisi, ha voluto realizzare un dormitorio, il “Sant’Anastasio”, “dove possiamo accogliere singoli, donne, nuclei famigliari”, spiega La Manna. “Una risposta da parte della comunità dei credenti di Trieste, totalmente a carico della diocesi e della Caritas, capace di offrire fino a 35 posti anche a coloro che arrivano sul territorio in serata e tarda serata”.
“Sedersi attorno ad un tavolo, con le istituzioni e le associazioni, per rimanere concentrati sul bene delle persone ha portato a trovare una soluzione”, commenta il direttore. “Migliorabile? Sicuramente, ma intanto è stato eliminato un luogo indegno com’era il Silos. Rimane la responsabilità di vigilare che tutto funzioni e che si sia in grado di prevenire la creazione di nuovi luoghi indecenti”.

A Gorizia l’esperienza della Comunità San Luigi

“In questo momento i ragazzi ospitati sono un’ottantina e appartengono alle etnie bengalese, pakistana, kosovaro albanese e all’area magrebina, Egitto e Tunisia in particolare”, spiega don Vincenzo Salerno, direttore della Comunità San Luigi di Gorizia, appartenente all’Ispettoria salesiana del Triveneto, che accoglie minori stranieri non accompagnati.
“I ragazzi arrivano in Italia in diversi modi, dopo viaggi che durano anche due o tre anni” aggiunge don Salerno, “transitando per gli Emirati arabi, Iran, Turchia, risalendo poi i Balcani fino alle nostre porte. Quindi, se sono intercettati dalle forze dell’ordine, veniamo contattati per ospitarli e sviluppiamo con loro, attraverso accordi educativi, dei progetti individualizzati: diventano soggetti della loro educazione”.
Ai ragazzi viene innanzitutto insegnato l’italiano, in attesa di essere inseriti nei percorsi dei Centri provinciali per l’istruzione degli adulti e dei Centri di formazione professionale. “Abbiamo realizzato anche dei percorsi interni”, spiega il salesiano “con 4 livelli progressivi per l’apprendimento della lingua, con due insegnanti dall’area pakistana e da quella araba in modo tale da poter fungere anche da mediatori”.
Numerose le esperienze realizzate oltre all’educazione di tipo scolastico, quali tirocini formativi per un contatto con il mondo del lavoro ma anche attività di tipo sportivo: “abbiamo una squadra di calcio e una squadra di cricket, con le quali facciamo trasferte, incontrando squadre di altre realtà. Non mancano poi le attività in collegamento con il locale Oratorio San Luigi, che permettono di sviluppare amicizie con gli adolescenti della nostra realtà”, racconta il sacerdote.
Fondamentale per i ragazzi anche un supporto psicologico, per curare le ’ferite invisibili’ che portano con sé dal loro viaggio: “il supporto psicologico viene svolto in comune accordo e in rete con i servizi sociali e i servizi specialistici”, racconta don Salerno.
“Spesso devono fare i conti con maltrattamenti, violenze, sono stati derubati, sfruttati dal punto di vista lavorativo, alle volte hanno incontrato vere e proprie forme di vessazione fisica, anche da parte delle forze dell’ordine dei paesi in transito”, aggiunge, “hanno vissuto l’accoglienza nei campi profughi e, soprattutto in Turchia, sperimentato il lavoro pesante per mantenersi e poter pagare il resto del viaggio.
Partono infatti portando con sé il peso di un debito economico che la famiglia ha contratto con i passeur. Vengono pertanto ricattati, sia per documenti che per denaro. Sono cose che, evidentemente, si fa fatica ad elaborare, perché fanno parte di esperienze reali, legate ad aspetti emotivi.
I danni fisici e psicologici sono segni che restano”.

Selina Trevisan

(foto ANSA/sir)