Il “Padre Pio” di Abel Ferrara

Non ci si aspetti, a onta del titolo, un biopic sul santo del Gargano. Al regista newyorchese interessava mettere a fuoco il travaglio di un semplice monaco nei primi, decisivi anni del suo ministero, nel cuore di tenebra dei rapporti di forza che reggono il mondo a spese degli ultimi. Nel lungometraggio di Abel Ferrara, al cinema, dopo grande attesa, dal 18 luglio, realtà e misticismo si compenetrano in una narrazione filmica ad alto grado di oscurità drammatica, fotografata ad arte da Alessandro Abate.
Siamo nel periodo di forti tensioni sociali conosciuto come “biennio rosso” (1919-1920).
A San Giovanni Rotondo, un giovane cappuccino sale il monte a dorso di mulo, verso il convento: è frate Pio da Pietrelcina, il cuore bruciante d’amore per Cristo. Il piccolo paese di pietre, povertà e ingiustizia sociale riaccoglie i reduci di guerra esultanti al grido di “Viva l’Italia”.
Il vento socialista prende a soffiare anche lì, risvegliando le coscienze dei popolani, avversato con odio violento dalle forze reazionarie che lo temono come il demonio. Bisogna che niente cambi, in quelle remote contrade di analfabetismo, oppressione e fatica, a garanzia dei privilegi goduti dai notabili, complice una religiosità di antico stampo, per la quale ciò che salva non è l’amore ma la sofferenza rassegnata alla mortificazione. Eppure nei braccianti sfruttati sino allo stremo (impossibile non pensare alle odierne vittime del caporalato), dai loro malsani tuguri si fa strada l’idea di poter cambiare l’ordine delle cose votando i socialisti alle prossime elezioni, le prime dopo il conflitto.
Un’altra lotta – in verità, la stessa – si combatte nel chiuso di una cella, a colpi di nerbate: tra il Divisore – che si presenta con sembianze ora spaventose ora suadenti, con il corpo fasullo di animali mostruosi o di provocanti fanciulle – e un umile frate che pur sfiancato dagli assalti di Satana, non arretra nella fedeltà alla propria missione.
Il regista ha scelto di ripercorrere questa curva stretta della storia accostando la vocazione di un monaco tribolato al movimento di riscatto dei lavoratori senza diritti e tutele.
Sta qui l’originalità del film, in cui i due filoni, alternandosi, solo apparentemente procedono slegati.
Abel Ferrara, forzando la cronaca ad un fine simbolico, fa avvenire la misteriosa apparizione delle stimmate nel medesimo lasso di tempo in cui a San Giovanni Rotondo – è il 14 ottobre 1920 – si compie il massacro dei poveri cristi.
Mentre i festeggiamenti dei socialisti, vincitori alle elezioni, sfociano nel sangue della strage perpetrata dagli sconfitti con il braccio armato dei militanti fascisti (13 i morti, tra cui due donne, più di 60 i feriti dell’eccidio non riportato dai manuali scolastici), frate Pio, offertosi al Padre a imitazione di Cristo, ha la visione estatica che reca impressi i segni divini.
Benché ci sia, non si sente lo stacco tra il campo medio della piazza con i cadaveri dei manifestanti nelle nere vesti e il primissimo piano del religioso in lacrime durante l’incontro mistico con Christus patiens.
Elemento connotativo del racconto è il chiaroscuro caravaggesco, sino all’inquadratura finale, che lascia nella sospensione tra amore redentivo e ombre apocalittiche.
Nei panni di Padre Pio si è calato l’attore americano Shia LaBeouf, convertitosi al cattolicesimo durante la preparazione del ruolo, in cui convince pienamente, interpretandolo senza ridondanze. Il film, presentato in anteprima nazionale a San Giovanni Rotondo, e in contemporanea in Vaticano, nel novembre del 2022, è stato girato a Monte Sant’Angelo e nel monastero di San Marco La Catola, comprimari gli stessi frati cappuccini.

Annarita Cecchin