Normalizziamo la mediocrità

Ho parlato tante volte della decadenza della cultura della quantità sulla qualità, dell’ansia della prestazione soppiantata dalla ricerca del benessere, del welfare aziendale che va accresciuto rispetto alle ore straordinarie, della ricerca di meno gerarchia e più lavoro di squadra e, perché no, della riscoperta dell’importanza dei fallimenti quale indice della ricerca del perfezionismo. Ma […]

30 Agosto 2024

Ho parlato tante volte della decadenza della cultura della quantità sulla qualità, dell’ansia della prestazione soppiantata dalla ricerca del benessere, del welfare aziendale che va accresciuto rispetto alle ore straordinarie, della ricerca di meno gerarchia e più lavoro di squadra e, perché no, della riscoperta dell’importanza dei fallimenti quale indice della ricerca del perfezionismo.
Ma mai, mai avrei voluto la deriva che viene esaltata oggi da molti media che ricamano inni alla mediocrità, esaltano la rinuncia come nuova cultura sociale, il “saper perdere” diventa “perdi tanto non è importante”.
Di questi giorni su la Stampa “la sofferenza psichica è così diffusa e profonda negli adolescenti perché la nostra vita è vissuta costantemente sotto la pressione delle aspettative e del dovere sociale. Sono modelli difficili da raggiungere, un successo che ti viene imposto dalla società” (intervista a Federico Cesari, attore).
Ma anche dal blog The Vision.com “Dobbiamo rivendicare il valore della mediocrità. Vivere con l’obbligo di primeggiare fin dall’infanzia ci ha logorati”.
C’è un profondo equivoco in queste parole perché si rifanno chiaramente ad un qualcosa che viene imposto dai genitori o dalle aspettative sociali. Viene chiaramente usato il termine “successo” quale nemico ad una vita serena e la “mediocrità” quale unico antidoto.
Ma cosa significa “successo” al giorno d’oggi?
Il filosofo contemporaneo Umberto Galimberti, in piena critica con il mondo moderno, così ricorda “Oggi capiamo cos’è utile ma non sappiamo più cosa è buono, cos’è giusto, cos’è bello. La stessa arte diventa Arte solo se entra nel mercato, perché se sta fuori rimane un’espressione biografica”.
Parole che ammoniscono il vivere di una società nevrotica finalizzato solo ai soldi e al potere sociale che da questi ne deriva.
Allora forse non è il successo il nemico ad una vita serena ma il circoscriverlo solo quale ricerca di business.
A questo la risposta non può essere la mediocrità: un genitore, un insegnante, un tutor non può insegnare la mediocrità. Ma dove lo mettiamo l’amore, la perseveranza, la costanza di fare qualcosa perché ne siamo attratti dalla sua bellezza, dalla conoscenza, dalla ricerca?
Sempre lo stesso Galimberti ha detto più volte “il desiderio non nasce dalla spinta a fare ma da una mancanza interiore” quasi a dire che il desiderio, motore del fare, è un’esigenza che parte da un’assenza intima. Un qualcosa che parte da dentro e che nessuno può costringere o imporre dall’esterno.
In tal senso questo pare riconciliarsi con le parole sofferenti dell’attore Cesari dandole un suono di libertà (condivisibile) e non più, come sembrano, di rinuncia, di ripiego, di ricerca di una mediocrità consolatrice.
Forse ai giovani si dovrebbe parlare di quell’amore forte e inesauribile che anima una passione e che porta naturalmente a spingersi oltre, a tentare oltre gli insuccessi, alla tenacia quale risposta di un’ossessione al fare sempre meglio.

“E voi fate le cose difficili, più difficili sono e meglio è! Quando dite “ma questo non ce la faccio, questo è troppo difficile” quello dovete fare! Le cose difficili. E se sbagliate non vi preoccupate! Sbagliate? Va bene, sbagliate e risbagliate, provate e riprovate! Gli errori sono necessari, utili e qualche volta anche belli! Divertitevi! Fate qualsiasi cosa e qualsiasi cosa facciate, amatela! Amate ciò che fate, non accontentatevi di fare un buon lavoro, lo dovete fare al meglio!”. (Roberto Benigni)