Effetto bosco

Sabato 21 settembre, a conclusione di un lungo lavoro laboratoriale condotto da Elisa Menon con un gruppo di detenuti della Casa Circondariale di Gorizia, è andato in scena lo spettacolo Effetto bosco, nell’ambito della quinta edizione del festival Se io fossi Caino. “Assisteremo all’esito di un lavoro faticoso condotto negli scorsi mesi, – ha sottolineato in apertura la neo-dirigente Caterina Leva – nato grazie all’empatia e alla professionalità di Elisa, ma anche alla disponibilità del personale e degli stessi detenuti che si sono messi in gioco superando paure iniziali”.
Uno spettacolo davvero emozionante, coinvolgente, curato nei minimi particolari, senza cadute di tono dall’inizio alla fine, poetico, ricco di spunti aperti ad una lettura personale. Una scenografia essenziale: cinque sacchi di foglie sparse sul cemento del cortile del carcere e una decina di comuni scope a rappresentare il bosco.
In questa semplicità ed essenzialità i sette detenuti-attori Paolo, Sebastiano, Constantin, Massimiliano, Hassan, Simone e Shadir e le tre attrici Gaia, Giulia e Federica assieme alla regista Elisa, prendono per mano lo spettatore e lo accompagnano nella metafora del bosco, coinvolgendolo a seguire con gli occhi e con il cuore i loro passi, le loro paure, i percorsi segnati dalle scope che imbracciano e con le quali invitano a sollevare gli occhi, a guardare il cielo, a guardare oltre, a volare con gli uccelli abitatori del bosco. Condividono le emozioni della notte nell’oscurità del bosco, quando cala la sera e ognuno è solo con se stesso nella propria cella, con le sue paure e, nel cuore, il sogno di superarle.
“Terreno del sogno, di ciò che è sconosciuto e desiderato, il bosco contiene un lato di pericolosità e incute timore, ma offre anche protezione e possibilità di rinascita. È il luogo dell’esperienza, del perdersi e del ritrovarsi, ma anche del fermarsi per guardare dentro se stessi. E così il bosco cura, fa respirare, offre bellezza e verità, una foglia alla volta”.
Due immagini in dissolvenza si alternano costantemente nell’ora di spettacolo, il bosco e le mura del carcere ricamate dalle grate delle celle, che sono lì a ricordarci dove ci troviamo.
Sì perché ogni tanto siamo trasportarti fuori come quel pallone lanciato oltre le sbarre dopo essere passato di mano in mano con complicità, accompagnato da sorrisi che esprimono la gioia dell’incontro, della relazione, della condivisione. Uno spettacolo ricco di quadri coreografici che si susseguono con ritmo, precisione e leggerezza, interpretati da attori disinvolti, sciolti… liberi.
Quadri intervallati dalla lettura di qualche breve e significativo testo frutto della riflessione dei protagonisti.
Un centinaio di persone hanno seguito la rappresentazione. Tra loro autorità civili, militari e religiose. Presenti anche don Alberto De Nadai, da sempre un’istituzione all’interno del carcere, l’ex direttore Alberto Quagliotto e il magistrato di sorveglianza di Udine Katjuscia D’Orlando.
“È sempre un’esperienza bellissima, – ha commentato il Vescovo Carlo nel suo saluto iniziale – ma ciò che è più importante è che il carcere sia in mezzo alla città, perché ci aiuta a capire che le persone che ci vivono fanno parte della comunità. Iniziative come queste permettono alla cittadinanza di esserci. Grazie al teatro – ha aggiunto – l’attore che recita, interpretando qualcun altro, dice sempre qualcosa di se stesso”.
In scena, accanto ai sette detenuti attori e alla regista Elisa Menon, tre attrici che avevavo partecipato nei giorni precedenti al labortatorio di formazione per operatori teatrali “Brillare – fare teatro in carcere”. “Quattro giornate intense di studio e pratica, per fare luce sui tanti dubbi di chi vuole avvicinarsi a questa professione, per iniziare a cogliere la complessità del teatro sociale, la delicatezza e la potenza di questo rito, le possibilità e i rischi che porta con sé, e naturalmente la sua infinita e profondissima bellezza”.
“Questo mestiere – ci tiene a precisare la direttrice di Fierascena – non va pensato solo come un atto di volontariato, di assistenza, di bontà o di intrattenimento: chi fa questo lavoro davvero è un professionista con una formazione solida nel teatro e nella relazione d’aiuto, capace di progettare interventi con obbiettivi specifici, di lavorare con tecnica e sensibilità per realizzare l’impresa di accompagnare alla scena persone che sulla scena stanno, sentono, decidono, affrontano, agiscono, donano, raccontano, desiderano, e si lasciano vedere da voi. E voi nel vederle vi vedete, e loro attraverso il vostro sguardo imparano di sé. Non basta avere la voglia di fare bene, bisogna sapere come farlo, studiare e studiare ancora”. In apertura la regista ha ringraziato la Regione, che sostiene il festival riconoscendone il valore culturale, e la Caritas che, fin dagli inizi nel 2016, ha saputo cogliere in questo progetto di Fierascena l’attenzione alla cura della persona.
Calorosi applausi hanno sottolineato vari quadri dello spettacolo e un lungo applauso liberatorio ha segnato la conclusione e premiato i bravissimi attori, che più volte, con ampi inchini, hanno ringraziato il pubblico, che non nascondeva la sua emozione.
La fase settembrina del festival si è conclusa mercoledì 25 con il secondo evento aperto al pubblico. Luca Regina, nel cortile della Casa Circondariale, col suo spettacolo di magia comica, ha coinvolto i detenuti e gli altri ospiti intervenuti, in una continua “risata liberatoria”. È stato un momento speciale e compartecipato grazie alla simpatia e bravura del performer. Valore aggiunto: l’allestimento tecnico a opera del gruppo di detenuti che avevano partecipato al corso di tecnica e allestimento di spettacoli teatrali curato da SoForm, ente di formazione professionalizzante, e il giovane Sebastiano debuttante come tecnico del suono.
Questi appuntamenti speciali promossi da Fierascena raggiungono pienamente gli obiettivi dichiarati del festival “offrire un tempo per sospendere il giudizio ed essere un invito alla visione e alla riflessione, uno strumento per aprire spazi di ascolto e dialogo su contenuti sociali, civili ed esistenziali attraverso l’arte”.

Dorino Fabris